il pilota della Ducati Andrea Dovizioso festeggia il secondo posto al MotoGp del Mugello il 3 giugno 2018 (Ansa/Claudio Giovannini)
La prima volta che ho visto sfrecciare dal vivo Andrea Dovizioso è stato sull’asfalto di Valencia, dodici anni fa, ed ero assieme al mio amico e collega Alessandro Pasini (il dettaglio conta, per quello che dirò dopo). Quella domenica di fine novembre 2006 fu il “5 maggio” dell’interista Valentino Rossi che, al quinto giro sbagliò, cadde rovinosamente a terra e perse il Mondiale, regalandolo al povero Nicky Hayden che, per ironia della sorte poi è andato a morire (il 22 maggio 2017) a Misano Adriatico, a due passi dalla casa del “Dottore di Tavullia”, investito da un’auto mentre si allenava, in bici. Destino più infame di quello toccato in sorte a Marco Simoncelli, ma almeno il “Sic” è morto come gli eroi, caduto sul campo di battaglia, il circuito malese di Sepang (22 ottobre 2011).
In comune Vale, il Sic e il Dovi hanno quel sangue impastato di talento, piada e Sangiovese. Campioni venuti su piegando fin da piccoli sulle curve delle colline dolci, tra il Montefeltro, la Valmarecchia e Forlimpopoli. Genius loci di piccoli villaggi, non ancora globali, e che disegnano una mappa sentimentale che racchiude storie di ragazzi nati per sfidare il tempo, far sognare chi li guarda passare e sorpassare anche il vento.
Insomma, tornando a Valencia, Dovi, quel ragazzino timido con ancora l’acne dell’adolescenza tatuate sul viso, l’avevo conosciuto il tempo veloce di un’intervista nel paddock spagnolo. Un incontro che mi lasciò sensazioni che facevano rima: «Silenzioso, scrupoloso, Dovizioso».
Nel clan degli emiliani-romagnoli, all’epoca scendevano ancora in pista il vecchio bolognese (di Castel San Pietro Terme) Loris Capirossi e il ravennate Marco Melandri che interpellati sull’astro nascente erano concordi con l’ex campione Loris Reggiani: «Vedrete, Dovizioso farà una grande carriera». I numeri parlavano già a suo favore: nel 2004 al secondo tentativo aveva vinto il titolo iridato della 125. Poi assalti mondiali nella 250 in sella alla Honda, battagliando con l’avversario di sempre «fin dai tempi delle minimoto », Jorge Lorenzo. E la sfida continua in MotoGp, dal 2006.
Ora lo spagnolo, il più pagato del circus (12,5 milioni a stagione contro l’1,5 del Dovi), è suo compagno di team alla Ducati. Sesto anno alla Rossa di Borgo Panigale per il forlivese volante che la passata stagione è stato l’ultimo ad arrendersi al campione in carica Marc Marquez. Duello bis impossibile? Chissà, ci sono 50 punti di distacco da Marquez... Intanto ieri la Ducati ha trionfato sulla pista del Mugello, con Lorenzo e Dovizioso sui due gradini più alti del podio, davanti alla Curva Rossa dei tifosi e delle fantastiche maestranze della fabbrica, secondo successo stagionale dopo quello d’avvio in Qatar.
Tutto è possibile. I tempi sono cambiati, colui che si definisce «il pilota meno ducatista del mondo» ormai è entrato nel cuore dei tifosi della Rossa su due ruote. «Un po’ come i tifosi di calcio, i ducatisti tifano la maglia e al pilota chiedono di non essere sovrastato dall’ego ma di dimostrare il senso di appartenenza», ha confidato Dovizioso dettando pensieri ad alta voce, ma non troppo, ad Alessandro Pasini nella sua autobiografia Asfalto (Mondadori. Pagine 221. Euro 18,00). Titolo che nasce dalla considerazione – per niente lontana dalla realtà della sua “vita precedente” in pista – di un altro fine osservatore del Motomondiale: «Te Dovi sei del colore dell’asfalto – mi disse un giorno Luca Cadalora –. La gente non mi vedeva proprio. Se sei uno che vive di corse, cerchi disperatamente i risultati ma non vinci e in più sei introverso, che vuole essere persona e non personaggio, non vieni notato. La massa di base è attenta ad altro, non ha voglia né tempo da perdere per imparare a capirti».
Per farsi capire gli ci sono voluti almeno dieci anni di dura gavetta, 9 vittorie e 43 podi. Un percorso che è il frutto di una crescita lenta ma progressiva che solo papà Antonio aveva compreso e atteso, con pazienza e saggezza contadina. «L’anno in cui pianti una vigna, non bevi il suo vino. Ma io lo sapevo che la tua annata era quella buona...», dice amorevole il padre, il quale la prima cosa che gli ha insegnato, ancor prima di salire in moto, è stato il “Metodo di Antonio”: «Trasformiamo le difficoltà in opportunità».
Con la pazienza dei forti e lo spirito del solitario («essere soli non vuol dire essere per forza tristi»), il Dovi ha continuato a correre contro tutto e tutti, specie contro quelli che a un certo punto non credevano più in lui. «Se ora la gente mi guarda con occhio diverso non è perché sono cambiato. Sì, sono migliorato come pilota, come uomo, ma la natura, il Dna diciamo, è sempre quello. Semplicemente ora sono gli altri che mi vedono da un’altra angolazione».
Anche Valentino ha imparato a guardarlo da un altro punto di vista. E quando i podi si sono fatti più fitti e regolari, Rossi gli si è avvicinato per dirgli con quell’eterno ghigno da Peter Pan: «Oh Dovi, c’hai messo un po’ di tempo, ma adesso c’hai preso gusto!». «Se ci conoscessimo meglio con Valentino, forse diventeremmo anche amici», ammette Dovizioso che non fa parte e non intende certo entrare nella corte dei miracoli di Tavullia, anche se «con il tempo ho capito che cosa significa vivere da Valentino Rossi con i vantaggi e gli svantaggi connessi. Per questo oggi lo apprezzo molto, e apprezzo il fatto che non ha mai perso la testa ed è rimasto sempre lucido in ambito sportivo. Quando sei a certi livelli il rischio di perderti per strada c’è».
La lealtà è la marcia in più del Dovi, e questa ingranandola quotidianamente gli ha permesso di non perdersi neanche un giro dei suoi 32 anni. Perciò, non accetterà mai lo stile discutibile di Marquez, di Lorenzo o di Iannone, che non sempre sono stati leali, e a loro manda a dire: «Ci sono persone che fanno tante cose di nascosto per ottenere risultati, io non sono fatto così».
Dovizioso è uno che non ci tiene ad essere un eroe fuori dal tempo e dal mondo. E un amante dei motori come Lucio Dalla, che un giorno a Urbino alla laurea honoris causa di Rossi definì Valentino il «Michelangelo del motociclismo», forse pensava a quelli come il Dovi quando in Disperato erotico stomp canta: «Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale».
Il libro che ha scritto con Pasini (giornalista di razza, di cui aspettiamo il debutto narrativo) poteva intitolarsi anche “Dovi, l’elogio della normalità”. O romanzo del ragazzo popolare, «dall’infanzia felice, nonostante la separazione dei miei genitori, i problemi in casa, il cibo che mancava e io che mangiavo con le famiglie degli altri piloti o la benzina che non avevamo per tornare a casa con mio padre dopo le gare».
Una storia semplice, quella di chi da sempre cavalca meglio il «cavallo bianco della razionalità», tirando le redini al «nero irrazionale» (entrambi campeggiano sul suo stemma) quando apre il gas e spinge la Rossa fino ai 350 km orari. Normalità di chi tiene a distanza di sicurezza i riflettori accecanti dello showbusiness, di chi schiva in velocità il gossip e vive a riparo dal mondo la sua storia d’amore con la fidanzata Alessandra. Dovizioso è il papà che va tranquillamente a prendere davanti alla scuola la figlia Sara (8 anni) e poi torna al suo mestiere, che affronta con gioia, con paura, e nel ricordo indelebile - sulla pelle - di Simoncelli che è un tatuaggio polinesiano, in cui sta scritto: «Sono padrone del mio destino, ma solo il destino conosce la fine del cammino».