domenica 4 giugno 2017
L’attore porta in scena ad Ascoli un progetto sull’opera del poeta toscano: «Parla di noi, persi in questa società al crepuscolo, in cerca di una mano che ci risollevi da dove ci siamo impantanati»
L'attore Maurizio Donadoni

L'attore Maurizio Donadoni

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«Secretum di Petrarca è un’opera di otto secoli fa che sembra scritta oggi. Parla di noi, persi in questa società al crepuscolo, dai valori liquefatti, in cerca di un appiglio, di una mano che ci risollevi da dove ci siamo impantanati». È questo il motivo che ha spinto Maurizio Donadoni, uno dei migliori attori italiani (nato a teatro alla scuola di Grotoswki per poi lavorare al cinema con Ferreri, Giordana e Bellocchio) a presentare il suo progetto In segreto alla rassegna i Teatri del sacro di Ascoli Piceno. Un diario intimo in forma di dialogo teatrale fra il poeta, allora in profonda crisi esistenziale, e il suo doppio nelle vesti di Sant’Agostino. Il lavoro scritto e interpretato dallo stesso Donadoni, attualizzato da un progetto visuale contemporaneo di Giancarlo Cauteruccio, sarà lo spettacolo di apertura (lunedì 5 giugno al Teatro Ventidio Basso alle 20.30) della manifestazione giunta alla sua quinta edizione (fino all'11 giugno), che valorizza la nuova drammaturgia dedicata al sacro, promossa da Fondazione Comunicazione e Cultura, Federgat, Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei e con la collaborazione dell’Acec.

Donadoni, che lavoro è stato fatto sul testo di Petrarca?

«È stato molto interessante, l’ho tradotto, ridotto, adattato punto per punto. Non è stato semplice arrivare dalle 140 pagine originarie alle 35 del testo teatrale. Per me è stato un percorso molto profondo e inaspettato, che getta una luce su un Petrarca che di solito noi non conosciamo. Secretum è un romanzo dialogato, tre giornate di confronto serrato in cui il poeta si sdoppia delle vesti di se stesso e di Sant’Agostino, autore da lui prediletto. Un esame di coscienza approfondito, talvolta aspro e autoironico tra il Petrarca immerso nel mondo e il Petrarca rivolto al cielo».

In cosa consiste la modernità di questo testo?

«Petrarca è un intellettuale molto contemporaneo, molto dibattuto tra essere nel mondo e la spinta a vivere nell’eremo. Nel periodo in cui scrive, fra il 1347 e il 1353, è immerso nella corte papale di Avignone, briga prebende per il figlio, cerca il sostentamento delle sine cure, per essere libero di occuparsi della letteratura. È la dinamica eterna della libertà e della costrizione. Siamo carne e siamo spirito, dobbiamo lavorare e comprometterci mentre sentiamo la spinta a essere duri e puri».

E oggi forse è ancora più complicato...

«Ora siamo immersi in quello che cambia, c’è il telefonino, poi il modello nuovo, poi i social che cambiano la percezione degli altri. Devi essere immerso in questa corrente, non dobbiamo sprofondare, ma essere sommergibili, stare in superficie o scendere negli abissi a seconda, anche, dell’età».

E Petrarca riflette proprio sullo scorrere del tempo.

«In quell’epoca Petrarca aveva poco più di 40 anni, che corrispondono ai nostri 60 di oggi, ed era in piena crisi esistenziale. Un’età in cui si comincia a mettere la morte in agenda».

Capita a tutti a un certo punto della vita...

«Capita a tutti, infatti, quando gli obiettivi giovanili non esauriscono la loro spinta. Cominciamo a pensare a cosa è stato il nostro tragitto sulla vita. Anche se viviamo in una società dissacralizzata, la spinta a sacralizzare di nuovo c’è. Anche uno che non crede alla fine deve farci conti».

E lei?

«Per me sacro vuol dire sacralità delle cose che esistono. O anche, come la intendeva Pasolini, un sacro della vita in sé. Personalmente non ho un senso religioso, ma se parlo di sacro la base è cristiana».

Come sarà quindi il linguaggio di Petrarca in scena?

«La traduzione dal latino è in un linguaggio svelto, sfrondando le citazioni più difficili, ma senza perdere profondità. Io sarò una specie di prete contemporaneo, immerso nella vita di oggi, con tanto di ipad. Ma nella disamina dei vizi e dei tormenti del Petrarca peccatore, il dialogo che era partito come istruttivo e molareggiante, man mano vede ingigantirsi la figura di Francesco. Alla fine nessuno vince dei due, la questione rimane aperta. Agostino gli dice di lasciar perdere la gloria, che non vale niente, invitandolo a pensare alle cose che non cambiano. Francesco gli dà totalmente ragione, sceglierà il cielo. Non subito, ma appena sbrigate le tante incombenze mondane di un intellettuale di successo. Lo trovo estremamente divertente».

Come mai ha proposto il suo testo ai Teatri del sacro?

«Perché è un’iniziativa teatrale particolare. Noi non capiamo bene cosa sta succedendo, ma forse le cose che sono più grandi di noi abbiamo il dovere di tramandarle, e compito del teatro è trasmettere. Il senso del sacro potrebbe perdersi nei secoli o forse no. Sta a noi conservare questa brace».

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