Il monumento a don Minzoni, ad Argenta, opera di Angelo Biancini - Web
Un libro, L’affaire don Minzoni. L’uomo, le inchieste, i processi (Franco Angeli, pagine 298, euro 33,00) di Andrea Baravelli e Paolo Veronesi, restituisce finalmente a don Giovanni Minzoni il ruolo storico che gli spetta, sottraendolo alle semplificazioni agiografiche e inquadrandolo nel contesto politico della Bassa Pianura Padana, dove lo squadrismo agrario fascista imperversò con la massima determinazione sotto la guida di Italo Balbo. Professori entrambi nell’Università di Ferrara, il primo di Storia contemporanea e il secondo di Diritto costituzionale, i due autori fondano la loro ricostruzione su una meticolosa lettura delle fonti, soprattutto giudiziarie.
Nato a Ravenna nel 1885, Minzoni studiò negli anni in cui si affermava il modernismo, che recepì soprattutto attraverso la lezione di Romolo Murri, indirizzando il proprio sacerdozio verso l’azione sociale e politica. Dal 1910 alla morte operò sempre ad Argenta, un grosso comune emiliano in provincia di Ferrara e diocesi di Ravenna, prima come cappellano e poi come parroco. Animato da un forte patriottismo, ma senza eccessi nazionalistici, fu volontario nella Prima guerra mondiale e si guadagnò una medaglia d’argento. Nel 1919 tornò ad Argenta e divenne subito il perno di numerose iniziative sociali – cooperative agricole, biblioteca, doposcuola, teatro parrocchiale – che ottennero largo seguito. Aderì al Partito popolare di Sturzo, e individuò nello scoutismo cattolico lo strumento educativo più idoneo per mobilitare l’elemento giovanile. In questo modo si contrappose prima ai socialisti e subito dopo ai fascisti. Lo scontro con questi ultimi, che nell’Argentano esibivano il volto peggiore dello squadrismo agrario lo espose ben presto al rischio di ritorsioni e anche di aggressioni. Il suo cattolicesimo sociale si colorò rapidamente di una forte connotazione democratica e libertaria, benché le pagine del Diario testimonino il suo sforzo costante di non superare i limiti che gli imponeva la veste di sacerdote.
Quando fu assassinato il sindacalista socialista Natale Gaiba (maggio 1921), fu la voce di don Minzoni a farsi interprete dell’orrore di tutta la cittadinanza. Il prete divenne così da un lato il vindice della giustizia violata e dall’altro il nuovo bersaglio della violenza squadrista. Il suo feroce assassinio maturò in questo clima. La sera del 21 giugno del 1923 due individui lo aggredirono alle spalle, mentre camminava per strada con un amico, probabilmente per dargli la lezione già varie volte promessa. Ma il colpo di bastone che lo colpì alla testa fu talmente forte da provocare la morte del prete dopo poche ore, nella costernazione della popolazione accorsa in canonica, dove era stato adagiato ormai in agonia. Ad armare gli assassini non fu soltanto la loro protervia ma anche, bisogna dirlo, l’isolamento di Minzoni dai vertici cattolici locali, largamente acquiescenti al fascismo: rattrista leggere in questo libro che il vescovo di Ravenna, Antonio Lega, fratello di un cardinale della Curia romana, non sentì l’elementare dovere di presiedere la cerimonia funebre.
L’inchiesta giudiziaria sull’assassinio non arrivò a nessun risultato, benché scrupolosamente condotta da Manlio Borrelli, il padre di quel Francesco Saverio Borrelli che tutti ricordiamo per il ruolo che ebbe nella vicenda “mani pulite”. A permettere di riaprire il caso fu l’anno seguente il clamore suscitato dal delitto Matteotti. Nella crisi che inizialmente parve quasi travolgere il governo trovarono spazio e coraggio i giornali antifascisti. “La voce repubblicana” riparlò della morte di Minzoni, facendo espressamente il nome di Italo Balbo. Questi querelò e il processo che ne seguì mandò assolti i responsabili del giornale. Nel processo troviamo, fra i difensori dei giornalisti, un altro personaggio, allora molto giovane, che avrebbe avuto ruoli importanti nella storia dell’antifascismo e poi dell’Italia repubblicana: Randolfo Pacciardi futuro segretario del Pri, ministro della difesa nei governi De Gasperi e antesignano dell’idea di trasformare il sistema costituzionale in senso presidenzialista.
Grazie a questa sentenza e anche all’impegno di un altro giornale, “Il Popolo” di Giuseppe Donati, il caso Minzoni dovette essere riaperto e arrivare a processo nel 1925. Ma il fascismo aveva ripreso il controllo della situazione. Stavano uscendo le leggi cosiddette “fascistissime” che smantellavano lo Stato di diritto e gli imputati, cioè mandanti ed esecutori del delitto, tutti appartenenti al peggiore squadrismo locale, chiaramente individuati, andarono assolti. Saranno condannati per omicidio preterintenzionale nel 1947, quando il precedente processo fu annullato e ricelebrato a Ferrara a carico degli imputati ancora in vita, ma subito scarcerati per la sopravvenuta amnistia.
Baravelli e Veronesi hanno il merito di ripercorrere tutta questa complessa vicenda presentando finalmente Giovanni Minzoni senza abbellimenti, sullo sfondo della vicenda ecclesiale, storica e giudiziaria che lo vide protagonista. Ne esce un personaggio lineare, che pagò consapevolmente con la vita il suo impegno civile e religioso, andando molto oltre il recinto dei credenti e riscattando con il proprio sacrificio la debolezza di molti superiori ecclesiastici. Il protagonista di una storia singolarmente simile a quella di Giacomo Matteotti, nato e vissuto a Fratta Polesine, un paese che dista pochi chilometri da Argenta.