Bob Dylan - Ansa/Epa
«Oggi, domani e anche ieri / I fiori sfioriranno come tutto / Seguimi da vicino / Perderò la testa se non vieni con me». È questo l'abbrivio dell'atteso nuovo album di Bob Dylan, 39° in studio, a otto anni da Tempest, primo di inediti dopo il Nobel e una lunga, bella teoria di gioielli da puro interprete. Ma valeva proprio la pena attendere e vale la pena seguirlo, il menestrello 79enne, in questo viaggio nella musica, nella poesia, nell'uomo e soprattutto nel qui ed ora che reca il titolo di Rough and rowdy ways che esce oggi su doppio Cd, doppio Lp e formato liquido.
Vale la pena perché a dispetto dei versi di cui sopra da I contain multitudes, uno dei tre già svelati a singoli nelle scorse settimane, il Dylan che nella canzone esorta a seguirlo sino a Bally-Na-Lee (parto d'una poesia d'Anthony Raftery e solo la prima d'una lunga serie di citazioni) tratta sì e molto di vecchiaia e mortalità, ma oltre che scevra da struggimenti e patetismi con una penna che si fa nell'opera via via più acuminata, squassante, diremmo necessaria. Per comprendere dove siamo arrivati e dove dovremmo guardare per ridar senso a un vivere svuotato.
A esser schietti, i «modi bruschi e chiassosi» del titolo del Cd prendono il via dopo un inizio "normale", per quanto di suggestione poetica in più passaggi. I contain multitudes è più intensa che d'appeal, anche un po' noiosetta giacché figlia d'un dichiarato flusso di coscienza che mescola con sapida ironia nomi d'ogni sorta a chiarire la libertà dylaniana d'essere poeta e il ruolo catartico e di senso del far musica («Sono come Anna Frank, Indiana Jones, i Rolling Stones / Vado dove tutto ciò che s'è perso ritrova posto / ¿Suonare Beethoven e Chopin contiene moltitudini»). Poi False prophet, citazione sin troppo palese d'un blues d'antan di Billy The Kid Emerson, è asprigno ragionamento sul senso d'una reputazione, ha fascino teso e innegabile e in essa Dylan rivendica «Sono nemico della vita non vissuta»: ma pur sempre mezzo plagio rimane.
E le successive My own version of you (dark, sul crearsi la creatura da amare sull'esempio di Mary Shelley e Frankenstein) e I've made up my mind to give myself to you (da entertainer) sono un viaggio nella bellezza della musica di ieri, con eco da Tom Waits a Neil Diamond. Fin qui dunque bel Cd, non capolavoro.
Dopo, però, la musica cambia. Sin dall'essenziale, toccante canzone-dialogo col Black rider, il cavaliere nero della morte, appello fiero, sofferto e sarcastico («Non voglio lottare, almeno non oggi»), e dal blues teso Goodbye Jimmy Reed in omaggio a un'epoca ma pure a un'etica.Il seguito è maiuscolo crescendo continuo: che si fa davvero brusco come da titolo, perché di sferza c'è bisogno eccome ai nostri tempi, e che è chiassoso - sempre da titolo - nella misura in cui fanno rumore nel 2020 una coscienza libera e un'arte vera.
Al New York Times Dylan, per solito araba fenice della stampa, ha chiarito: «Nel disco parlo di mortalità in termini generali, non personali», ma sull'onda del disgusto per la morte di George Floyd è andato oltre: sottolineando infine il senso profondo, di Rough and rowdy ways. «Parlo della morte dell'uomo, del nostro strano viaggio in cui tutti siamo fragili davanti alla fine. Oggi non ci sono buone notizie: i media agitano la gente con biancheria sporca, deprimendo e creando orrore. Non so se la pandemia in corso è un castigo divino, ma forse precorre altro in arrivo: perché l'estrema arroganza porta a punizioni disastrose». Parole dunque fortissime, che trovano eco in più brani della seconda parte del Cd: attenzione però, che l'uomo è profondo e, di conseguenza, mica tanto arreso.
Nella metafora dell'avvicinarsi alla morte di Crossing the Rubicon, quasi violenta blues ballad che pare canto d'un profeta veterotestamentario, Dylan allinea immagini apocalittiche ? più fotografie che metafore dell'oggi ? e a un certo punto però sbotta. Dicendo che dolore e paura non scusano rinunce all'etica: «Io posso redimere il mio tempo», canta. E in Key West (Philosopher pirate) apre a un oltre sicuro con una prova d'autore alta e d'appeal che partendo dai poeti (per lui Ginsberg, Kerouac, Corso), indica l'anelito umano di ritrovare, «dopo», un luogo di senso e di esplicita immortalità.
Poi c'è il capolavoro Mother of muses, ballad struggente con aperture melodiche strepitose che reca uno dei testi più belli forse dell'intera storia dylaniana.Qui l'artista cita una miriade di personaggi simbolo dell'umanità, per esemplarità o per debolezze, e allineando grandi generali, Elvis e Martin Luther King rimbrotta i giovani (sui quali al NY Times ha detto «Non vivendo il passato credono a tutto») esorta tutti a imparare e testimoniare, dell'uomo, «la vera storia senza fronzoli, nelle ore in cui tutti sono deboli». Poi in chiusa a tutto - su Cd in disco a sé - i 17 minuti di quella Murder most foul dedicata - ancora simbolicamente - all'obbrobrio dell'assassino di Kennedy quando «migliaia stavano guardando e nessuno ha visto» ma pure agli anni della leggerezza che gli sono seguiti fra violenze gratuite ed ere dell'acquario «dove sono morte fede, speranza, carità».
E questo pezzo difficile, che però forse segnalando l'esigenza di tanti di qualità e pensiero (a dispetto di quanto ci ammanniscono in Tv) è stato il primo N°1 di Dylan nelle chart digitali, è un brano teatrale, cupo, con musica però non banalmente di servizio: anzi inquieta con slarghi improvvisi e rafforza la potenza cruda, visionaria, poetico-filosofica del testo.Un testo che chiude il disco della rentrée di Dylan come segue, rimarcando ancora pure il potere dell'arte per capire.
«Suona Jelly Roll Morton, suona "Lucille" / Suona la sonata al chiaro di luna in Fa diesis / Suona l'oscurità, che la morte verrà quando deve! / Suona "Love me or leave me" del grande Bud Powell, suona "The blood stained banner" (un inno evangelico), suona¿ "Murder most foul"». Suoniamola, sì, quest'ultima. Facciamola girare. Chissà che poesia e coraggio, che andare con Dylan a Bally-Na-Lee, non ci indichino nuove vie.