Il direttore d’orchestra Mario Menicagli - Luca Priori
«Un giorno tu parlerai agli intellettuali. Loro ascolteranno. Alla fine. Tu darai, loro prenderanno e ti incalzeranno sulla soglia di un manicomio senza porte». È una delle 53 poesie (appena ripubblicate da Lamantica Edizioni) scritte dal nevroromantico chansonnier livornese Piero Ciampi (1934-1980). Un irregolare della musica d’autore degli anni ’60’70, così quanto lo è, sul versante lirico, e non solo, il suo concittadino: Mario Menicagli. Il Maestro, classe 1963, violinista solista, compositore, autore di musica pop – diplomato (al Cet) alla scuola di Mogol – , direttore d’orchestra per i concerti dei jazzisti Danilo Rea e Stefano Bollani o anche per i cantautori Ron e Roberto Vecchioni. Un mago della contaminazione, capace di trasformare la lirica nelle parodie di Mimì e le altre o nell’«opera pop» Il Gatto con gli Stivali. Perciò, a chi lo segue da tempo, non sorprende che questa sera a Catania, nell’ambito del “Festival Lirico dei Teatri di Pietra” presenti in prima esecuzione mondiale la sua “irregolarissima” opera scenica Dodici anni dopo. Alias: «Il sequel di Cavalleria rusticana. Dodici anni dopo andrà in scena dopo l’esecuzione di Cavalleria rusticana, in quella che normalmente è la collocazione storica di Pagliacci di Leoncavallo – spiega il Maestro livornese – . Anche la durata, circa 45 minuti, ne facilita in questo senso la realizzazione».
Siamo nella dimensione in cui il teatro entra sul palco e si fonde pienamente con la lirica.
Non conoscevo l’esistenza di questa opera teatrale, scritta nel 1917 da un grandissimo attore e drammaturgo siciliano, Giovanni Grasso (ispiratore del metodo Stanislavskij) il quale immaginò la prosecuzione di una rappresentazione di Cavalleria rusticana. Quando da Palermo mi mandarono il copione in siciliano, spinto dall’indimenticata Maddalena Winspeare e da Giulia Perni della casa editrice Sillabe, mi sono messo a lavoro. Con il poeta livornese Lido Pacciardi, che ha scritto il libretto c’abbiamo lavorato due anni. Ne è uscita un’opera di cui vado orgoglioso.
Un omaggio a Mascagni che le viene naturale anche per le affinità livornesi.
Sono nato a Livorno esattamente cento anni dopo – il Maestro era del 1863 – , in una casa a 150 metri dalla sua abitazione. Mascagni per me è un punto di riferimento non solo musicale. La sua personalità, forte e carismatica, esprime la veracità e i profumi della nostra città. Come compositore è forse quello che tra i grandi ha sperimentato di più. Basti pen- sare che fu il primo autore di una colonna sonora per il cinema. Per Rapsodia satanica, film del 1917 di Nino Oxilia, Mascagni si fece costruire un cronometro speciale con il quale sincronizzava alla perfezione la sua musica con le sequenze del film. Un genio.
Un genio che forse non è stato mai consacrato a dovere.
Infatti, delle sue quindici opere ormai ne vengono rappresentate non più di quattro e io mi fregio di averne eseguite almeno la metà, compresa la prossima Il piccolo Marat, dramma lirico in tre atti del 1921, considerata un’opera reazionaria, che dirigerò per la prima volta il prossimo dicembre in occasione del centenario. Il genio precoce di Mascagni ne fece il “Michael Jackson della lirica” di allora, ma l’essere arrivato all’apice del successo già a 27 anni gli creò molte invidie e altrettanti detrattori.
E poi la nomina di Accademico d’Italia conferitagli da Mussolini, ne fece, erroneamente, il “compositore del regime”.
Nella Livorno comunista non glie la perdonarono, e la città gli rese il dovuto omaggio solo sei anni dopo la morte. Nel funerale postumo, l’allora sindaco Furio Diaz, fece un discorso di pentimento collettivo. E pensare che in pieno stalinismo, a Mosca, il 2 agosto 1945, alla notizia della morte di Mascagni la radio sovietica trasmise Cavalleria rusticana.
Il tempo si spera che sia sempre più galantuomo con Mascagni, mentre questo è il tempo della pandemia che lei ha occupato componendo De’ relitti e delle quarantene.
Sono partito dai Delitti e delle pene di Cesare Beccaria, libro stampato proprio a Livorno, nel 1764. La mia è un’opera buffa, la prima ai tempi del Coronavirus. De’ relitti e delle quarantene ha per protagonisti due poveri coniugi pensionati costretti a restare in casa a difendersi dal virus e anche da se stessi. Le arie settecentesche, in stile rossiniano, smorzano la drammaticità di questo tempo malato con cui siamo costretti tutti ancora a fa- re i conti, e che penalizza principalmente le nuove generazioni.
Quei giovani per i quali ha ideato il primo “talent lirico”, fuori dalla tv.
Solo il Covid ha interrotto “Open Opera”, un talent non competitivo che organizziamo al Teatro Comunale di Collesalvetti. Tre sessioni stagionali in cui diamo la possibilità a 18 cantanti (a fronte delle 350 domande pervenute) di far sentire le loro voci. Non promettiamo nulla, offriamo ospitalità e attenzione e magari il colpo di fortuna che a queste serate arrivi in platea l’agente lirico al quale serve un tenore o un soprano da scritturare seduta stante. Ora che sono direttore del Teatro Goldoni di Livorno mi auguro di dare un’opportunità ai migliori giovani di “Open Opera” e di premiarli inserendoli nel cast dei prossimi allestimenti che faremo.
A proposito di premi, ma è vero che la sua grande passione musicale gli fruttò una vincita record al Telemike?
Confermo, nel 1989 ho partecipato al telequiz di Mike Bongiorno. Mi presentavo come esperto di tutta la musica italiana, classica, lirica e pop. Consideri che a 10 anni sapevo a memoria almeno dodici capolavori del nostro repertorio operistico, da Verdi a Puccini per intenderci. Mike rimase stupito dalla mia competenza, e io lo ringrazio ancora perché portai a casa 497 milioni di vecchie lire che per me 25enne erano una fortuna.
La musica per lei è un gioco che ama quanto il calcio, sport che lo vede sugli spalti dell’Ardenza da tifoso amaranto ma anche in campo, al torneo labronico dei “gabbioni” in squadra con il mister della Juventus, il livornese Max Allegri. Mai pensato a un’opera lirica sul pallone?
La vedo dura. Il calcio ha provato a metterlo in musical Ben Helton con The beautiful game, ma non so se si presta anche per la lirica, pur trattandosi di mondi affini. A cominciare dal pubblico, quello dell’opera è fazioso e rumoroso come i tifosi allo stadio. E poi, io per spiegare la figura del direttore d’orchestra mi rifaccio sempre a quella dell’allenatore. Ai musicisti ricordo sempre: il direttore non è solo quell’uomo che sale sul podio e agita la bacchetta in maniera più o meno nervosa, così come l’allenatore non è colui che dalla panchina ha solo il compito di guardare la partita della sua squadra. Dietro i rispettivi ruoli, e Allegri lo sa bene, c’è tutto un lavoro di anni, certosino, che spesso genera il capolavoro come il flop clamoroso, in base alla creatività e al talento che ognuno di noi è in grado di metterci, in scena come in campo.