Franco Branciaroli«Demonizzato a scuola, rinasce a teatro»Dopo ilDon Chisciotte, Franco Branciaroli si calerà di nuovo nelle vesti classiche e già più volte indossate dell’Edipo re, in una versione diretta da Antonio Calenda, che debutterà il primo aprile a Messina. Intanto, il 7 marzo, il regista e attore sarà al festival del dialetto di Milano a leggere le poesie di Delio Tessa, Carlo Porta, Franco Loi e altri grandi autori della poesia milanese. Lui che, nonostante con la parola giochi e sperimenti, racconta di non aver mai affrontato il teatro dialettale. Eppure, proprio in una sua riduzione dell’«Edipo re» c’era un personaggio che parlava uno strano dialetto…«Quello è stato un piccolo spettacolo che ho fatto in una località di mare, sulla spiaggia delle Marche, un paio di anni fa. E per il ruolo del Nunzio, che pronuncia il prologo e l’epilogo, ho voluto a interpretarlo un attore che con una specie di dialetto meridionale, un po’ calabrese, rievocava un tipo di teatro medioevale, ancestrale, adatto a un’atmosfera pre-classica e greca».E ora invece reciterà i versi dei poeti dialettali della sua Milano. Ma in una città così inserita nel processo globale, e dove è più facile sentir parlare in inglese e in cinese che in milanese doc, cosa ne è rimasto del dialetto?«Non si usa più, questo è certo. È stato combattuto in tutti i modi e a livello nazionale. Ricordo quando ero piccolo che a scuola facevano di tutto per non farci parlare il dialetto. Anche in tv c’era un martellamento continuo contro questa eredità linguistica. Non so dire, però, fino in fondo se sia stato più un bene che un male. Perché non è che al dialetto si sia sostituito un ottimo italiano. Forse a parlare il dialetto è rimasta solo la mia generazione, dai sessant’anni in su. Io per esempio lo parlo. Anzi, io ho parlato prima il dialetto che l’italiano. Il mio cervello si è formato in dialetto, e si dice che il nostro carattere si forgia a seconda della prima lingua che si parla». Considera il dialetto milanese una lingua? Che caratteristiche ha?«No, non posso prendermi la responsabilità di definirlo una lingua. Il milanese, quello che ne è rimasto, è molto dolce, è un miscuglio di suoni francesi e tedeschi: un dialetto complesso, pieno di sfumature e di echi, arioso, capace di fare grande poesia. Bisogna, però, distinguere tra il milanese e il dialetto di cintura che, invece, è più pesante. In verità, a me sembra che, nella zona di Milano, solo i legnanesi ormai tengano al dialetto e alla sua conservazione. Io sono un grande fan della compagnia dei Legnanesi (fondata da Felice Musazzi, ndr), anche se ormai in tutti gli autori che fanno dialetto c’è una certa tendenza all’italianizzazione, per farsi comprendere meglio». Proprio nel teatro italiano del Novecento il dialetto ha trovato grande linfa. Per esempio, lei ha lavorato con il milanese Giovanni Testori…«Sì, in Testori il dialetto c’era, ma era poco. Lui rimescolava tutto in un originale gioco linguistico: idiomi antichi, lingue morte e contemporanee, in un insieme più complesso, più ricco e più affascinante. Sono, invece, i luoghi di Testori che rievocano quel linguaggio. Perché spesso racconta di ambienti della città dove ancora si parlava molto il dialetto.Penso, piuttosto, che il teatro italiano abbia continuato a conservare una buona tradizione dialettale nei grandi attori: i genovesi come Gilberto Govi, o i toscani e i bolognesi. Poi naturalmente c’è la scuola napoletana. Per loro, sì, che il napoletano è una vera e propria lingua».Due nomi che accomunano teatro e dialetto: Goldoni e Eduardo De Filippo…«Al tempo di Goldoni il veneziano era l’inglese di oggi. Dato che la Serenissima aveva rapporti commerciali con tutti i paesi, era la lingua più parlata e più potente d’Europa. E Goldoni è stato un inarrivabile innovatore proprio perché introduce la vita della nascente borghesia nel teatro, con i suoi stili, i suoi modi e la sua parlata. Nell’uso della lingua, e non solo, nessuno è stato così grande e dopo di lui si è fatto sempre meno uso del dialetto come espressione teatrale. Eduardo, invece, è un drammaturgo del Novecento che sfrutta una lingua familiare perché i contorni del suo teatro sono i contorni della piccola borghesia napoletana. La sua base è la farsa, i quadretti realistici a cui ben si adatta quel linguaggio casalingo».
Tonino Guerra«Ma come il latino è destinato a morire»Nel piccolo comune di Pennabilli, tremila abitanti nel Montefeltro marchigiano, dove vive dal 1989, è facile immaginarlo a parlare il suo romagnolo nelle locande, tra gli avventori dei bar e nelle piazze. Mentre racconta di Fellini, di Antonioni e della dolce vita romana. Quel dialetto, Tonino Guerra, se l’è portato dietro per tutta la vita, da quando, giovane intellettuale di Santarcangelo di Romagna, faceva parte di un gruppo chiamato E’ circal de giudeizi (Il circolo della saggezza) che contava, tra gli altri, Raffaello Baldini e Nino Pedretti: anche loro, come lui, poeti dialettali. Santarcangiolesi tutti e tre, hanno esplorato la potenza comunicativa del verso romagnolo, trasformando in lirica la parlata "terrosa" della vita di paese. Un dialetto poetico, secondo Tonino Guerra, che di recente è arrivato a parlarlo fino in faccia a Omero, rivisitando come un cantastorie contadino il viaggio di Ulisse, in Odiséa. Viaz de poeta sa Ulisse. E dopotutto è da quella tradizione orale, dal cantore greco al vecchio narratore popolare, che vede arrivare la lingua dialettale, fatta di voci comuni e piena di una poesia particolare: rivolta ai ricordi dolci e alle impressioni dure di tutta una vita. Quando ha iniziato a scrivere in dialetto?«Durante la prigionia a Troisdorf, in Germania, dove ero stato deportato. Avevo ventidue anni e mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo. Sentire parlare la propria lingua li aiutava a resistere alla sofferenza e alla paura. Poi, in Italia le feci leggere a Carlo Bo, gli piacquero e mi fece la prefazione alla primo raccolta di poesie, pagata di tasca mia e intitolata I scarabócc ("Gli scarabocchi"). Era il 1946 e fu un gran successo». Il suo amico e collega Nino Pedretti ha scritto: «Il dialetto sta per morire, è ormai agli sgoccioli, chiuso nei paesi dell’interno e travolto dalla lingua di mass-media». La vede così anche lei?«Sì, il dialetto è una lingua che scomparirà presto. E in futuro vivremo solo con un cattivo italiano e con un cattivo inglese. Anzi, dico di più, anche l’italiano è in pericolo: perché andiamo verso una lingua unica. C’è una tendenza commerciale che fa economia di linguaggio e rende tutto uguale. È l’omologazione in atto».Lei definisce il dialetto una lingua…«E lo è. Deriva dal latino come molte altre lingue e come il latino è destinata a morire. È l’unica grande lingua conosciuta, un tempo, dall’ottanta-novanta per cento delle persone. È la lingua della civiltà contadina, e non solo. I grattacieli sono stati eretti da parole in dialetto, da persone che tra loro comunicavano in dialetto. Adesso, il dieci per cento o meno degli italiani sa parlare bene l’italiano, mentre prima, il novanta per cento della gente parlava alla perfezione il dialetto e sapeva difendersi anche in modo poetico, molto più ampio, perché conosceva ogni singola parola e i suoi diversi significati».E, nella poesia e nella letteratura italiana, quale è stato il contributo del dialetto?«Immenso. Pensi solo a che cosa ha dato Carlo Goldoni, con il suo veneziano. Pensi a Tessa e agli altri grandissimi poeti milanesi. Oppure a Salvatore Di Giacomo e poi a tutta la canzone napoletana. Io credo che l’unica grande speranza rimasta sia il fatto che il dialetto sicuramente vivrà a Napoli e a Venezia. Sono le due sole grandi città che conserveranno negli anni questa voce del cuore, questa voce sudata».