Pippo Delbono a Palermo con Bobò per la “La Passione secondo Giovanni” di Bach
La tavola dell’ultima cena viene imbandita. Seduto al centro, Gesù Cristo indossa un impeccabile smoking bianco col papillon, da un lato l’Evangelista porta uno smoking nero, dall’altro siedono due veri rifugiati, Martino dalla Nigeria e Safi dall’Afghanistan. Alle spalle il coro intona potente «Herr, unser Herrscher», «Signore nostro Dio, mostraci con la tua Passione che tu, il vero figlio di Dio in ogni tempo, anche nella più profonda umiliazione, sei stato glorificato». È già un manifesto programmatico l’alzata di sipario sulla nuova appassionata e spiazzante regia di Pippo Delbono che giovedì ha debuttato al Teatro Massimo di Palermo, dove chiude stasera, la sua versione in forma scenica de La Passione secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach ( Johannes Passion BWV 245) supportato dall’Orchestra e Coro del Massimo che produce lo spettacolo insieme al Teatro dell’Opera di Roma e al San Carlo di Napoli dove seguiranno altre repliche.
Si tratta del terzo capitolo della personale ricerca sulla Buona Novella del regista e attore che dopo il successo del suo Vangelo dei migranti prima a teatro (sarà in scena al Teatro della Corte di Genova dal 2 al 7 maggio) e poi al cinema, affronta la sfida più ostica, quella di declinare il tema col suo stile personalissimo e “disturbante ” di fronte al difficile e impettito pubblico dei teatri lirici. Perché Delbono non si accontenta di una semplice messa in scena mimica ma, come ci racconta a fine spettacolo, sudato ed entusiasta, «Cristo era un rivoluzionario e noi lo abbiamo trasformato in conservatore, in una effigie eterea e staccata dal mondo. Ma, come dice papa Francesco con cui mi sento in straordinaria sintonia, il volto di Cristo sta negli ultimi e nei poveri. Il Vangelo io lo approfondisco con la vita». La scelta dichiarata è brechtiana sin dalla scenografia, una alta impalcatura per costruzioni che sta a simboleggiare «la memoria dei condannati a morte, degli emigrati disperati che vengono salvati in mare, degli operai che perdono la vita sul lavoro», da cui salgono e scendono i cantanti solisti, accompagnati per mano dal regista che agisce come onnipresente deus ex machina a vista. E come voce narrante “altra” (ancora Brecht) con interventi recitati al microfono, che ricordano le meditazioni della Via Crucis al Colosseo. «Mi porto dietro il ricordo di odori e di incensi di quando ero piccolo, la fede di mia madre, la sua passione di Dio, la mia paura di Dio», recita Delbono all’inizio ribadendo l’importanza della profonda educazione cristiana ricevuta, poi abbandonata e, dopo i travagli personali dalla droga al virus dell’Hiv, approdata al buddhismo per giungere a questo recente riavvicinamento alle origini. Delbono è sinceramente interessato a sottolineare i messaggi chiave di Cristo, ribadisce le frasi clou dell’evangelista Giovanni, i passaggi più intensi dei corali, tratti dalla Passione del poeta Barthold Heinrich Brockes e dal poeta Christian Weise, e delle meditazioni delle arie (fra gli autori anche Lutero). E aggiunge, sussurrando o gridando, agitandosi in platea a coinvolgere il pubblico, i tormenti dell’uomo di oggi di fronte al peccato, alla disperazione, alla guerra.
Il rischio maggiore è quello di “dissacrare” Bach, spezzando la linearità di cristallina perfezione musicale ed emotiva dell’opera che debuttò nella chiesa di San Nicola a Lipsia il Venerdi Santo del 1724. Non è l’intenzione di Delbono che invece vuole creare un nuovo rito contemporaneo, osando sovrapporre la sua voce alle note e anche al cantato, grazie alla generosità di cantanti dalle doti e dalla finezza eccezionali (il tenore Nathan Vale-Evangelista, il basso Ugo Guagliardo-Gesù e il baritono Giorgio Caoduro vestito da cardinale a significare, nelle intenzioni, l’ambiguità del suo doppio ruolo di Pietro e di Pilato). Disposti a fare un passo indietro rispetto alla narrazione e applauditissimi come pure l’ottimo direttore musicale Ignazio Maria Schifani. Dura, però, da digerire soprattutto per i melomani. «Stia zitto, voglio ascoltare la musica, non ce la rovini» grida una anziana signora a Delbono. Se in effetti la prima parte risulta un po’ sopra le righe rendendo l’amalgama altalenante, è soprattutto nella seconda parte, più visiva, che il dolore della Passione di Bach si incarna ai giorni nostri con esiti commoventi. Dal momento in cui il regista sostituisce metà del coro con 14 ragazzi sordomuti della sezione palermitana della Compagnia Teatrale “Ciclope” dell’Ente nazionale sordi. Chiamati a esprimere coi loro gesti dapprima le parole fuoco, guerra, distruzione, terremoto, riappariranno nell’arioso finale a “parlare” di abbracci, amore, pace.
E la Passione si intreccia sempre più col dramma dei rifugiati. «Porto con me le parole di quel Cristo ribelle che grida ancora in questo nostro deserto di morti e di muri » declama l’artista spargendo a terra le vesti di Gesù che si sono divisi i soldati, ovvero gli abiti abbandonati dai disperati di Calais. Poi il musulmano Samir (attore della Compagnia di Pippo Delbono) e il cristiano Martino (accolto dalla Missione di Speranza e carità di Biagio Conte), ai lati del Cristo come i due ladroni in croce, vengono bendati e torturati, mentre Delbono sferra bastonate alla struttura metallica. Moriranno in mare, come Gesù, ricoperti da un telo termico dorato. Arriverà nel finale l’anziano Bobò, l’attore sordomuto feticcio di Delbono, a risollevarli e, forse, resuscitarli. Lui, il fragile, con i suoi versi strazianti mescolati al grande coro finale, essenza e incarnazione ultima del Cristo. Alla fine il pubblico si divide sulla regia fra applausi entusiasti (i più giovani), alcuni esitanti e qualche buu. «Fra il rifugiato che piange davanti a questo spettacolo e la signora che si indigna, io sto col rifugiato – dice Delbono –. Bach era un innovatore. Rispettare un autore non è conservarlo, ma ritrovarne la sua essenza». Il sipario cala sull’invito evangelico a «camminare nella luce». «Buddha e Cristo sono portatori di luce e di pace, come dimostra papa Francesco anche col suo viaggio in Egitto. E il mio prossimo lavoro per il Centre Pompidou di Parigi sarà sulla gioia».