Su il sipario. L’«Appello» Alessandro D’Avenia adesso lo fa anche a teatro. Il giovane Prof più amato e letto d’Italia (autore del best seller Bianca come il latte, rossa come il sangue) chiama a raccolta nei teatri italiani, «l’ingresso è gratuito», i suoi liceali e non, per raccontargli L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita( titolo omonimo del suo ultimo libro - Mondadori - ). Novanta minuti viscerali di canti e discanti sul palco, con ai lati una classe in rappresentanza dei sorprendenti e stupiti 1800 spettatori, la maggior parte giovani, adolescenti - molti con genitori al seguito, che a Milano al Teatro Carcano, come al Biondo di Palermo (domani si replica a Torino) hanno ascoltato e imparato a conoscere un Leopardi “inedito”, o quanto meno liberato dalla polverosa seriosità scolastica e soprattutto dalla storica e fuorviante pregiudiziale del “pessimismo leopardiano”.
«Basta con questa storia del Leopardi pessimista, il mio Giacomo spiegato ai ragazzi è un rivoluzionario, un inguaribile e straordinario romantico, un greco redivivo che da due secoli in qua invita i giovani alla “ribellezza”, cioè a ribellarsi in nome e a difesa del bello - spiega D’Avenia dal palco, con un pathos attoriale che ricorda il primo Baricco - . Leopardi è un giovane che nella sua breve esistenza ha lottato ogni singolo istante per tenere insieme verità e bellezza. È
ciò che io chiedo ai giovani di oggi, ed è per questo che nello spettacolo le due fondamentali domande leopardiane che pongo ai ragazzi sono: qual è stata l’ultima volta che avete incontrato la luce della bellezza? Quante vite ci sono in una sola vita?». Per D’Avenia la prima volta che incontrò la bellezza del verso del poeta di Recanati è stato a 17 anni «con i risparmi della paghetta comprai un’edizione tutta mia dei Canti. Rimasi folgorato dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia ». Leopardi e Friedrich Hölderlin i primi semi poetici gettati dal suo prof. del liceo palermitano in cui D’Avenia, ricorda: «Il mio insegnante di religione era don Pino Puglisi». Il parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993. Lo scrittore, allora sedicenne, fece suo il monito di don Puglisi: «Se ognuno fa qualcosa allora si può fare molto».
Quel messaggio di speranza il Prof lo ha trasposto nel romanzo dedicato alla figura del parroco di Brancaccio Ciò che inferno non è (Mondadori) e lo porta ogni giorno in aula nella sua missione civile e appassionata di insegnante. E ora (in un gioco di luci, sottofondi musicali e schermate) chiede al suo Leopardi di fare l’appello. «Un momento straordinario quello dell’appello in cui ognuno si sente finalmente “chiamato”. Davanti a me vedo i volti belli, pieni, lunari ed acerbi, dei miei alunni che sono tanti, perché io non mi accontento di una “classe chiusa” di 25-30 ragazzi. E non capirò mai quell’insegnante o quel preside che pretendeva di ridurre il numero dei propri studenti. Io voglio andare oltre i muri della classe, abbracciare e parlare della poesia di Leopardi a tutti gli alunni possibili: cercare assieme a loro la luce in mezzo all’ombra, l’in- finito oltre la siepe.
Tentare di edificare in alto le fondamenta della propria casa, entrare in quello spazio interiore dei ragazzi dove c’è un sacco di lavoro da fare». Un lavoro complicato, reso ancora più difficile da un quotidiano giovanile perennemente connesso alla hi-tech e disconnesso dal resto, poesia compresa. «E invece con L’arte di essere fragili dimostro che non è così. I ragazzi saranno i primi ad annoiarsi della tecnologia e a tornare a una dimensione poetica. Accadrà come nell’apologo dell’Imperatore di Borges in cui l’impero va in rovina perché la tanto agognata mappa richiesta dall’Imperatore in scala 1 a 1 non renderà più leggibile la realtà. La lettura di Leopardi insegna loro che c’è una reliquia preziosa dentro ognuno di noi, che tutta la prosa si può trasformare in poesia e che per accendere ogni età della vita è necessario un fuoco che lo animi...
Il problema del tempo in cui visse il Poeta è lo stesso che dobbiamo risolvere noi oggi: riparare la bellezza distrutta dalla borghesia mercificata. Riappropriarci dei cinque sensi , della grandezza della luna, dell’incanto dei suoi notturni e del cielo stellato 364 giorni l’anno e non fare del 10 agosto - la notte in cui ci fermiamo ancora a guardare le stelle cadenti - una straordinaria eccezione ». I ragazzi secondo D’Avenia devono capire, attraverso la poetica leopardiana che «la vita non è un like». Il suo viaggio teatrale conduce per mano lo spettatore nell’età della vita scandagliate tra indicibili sofferenze, illusioni e disillusioni («Leopardi avverte e muore per il mondo che lo delude e distrugge tutte le sue illusioni»). L’adolescenza «in cui si coltiva l’arte della speranza, il primo sguardo d’amore che è l’unica cosa che rimane per sempre». Il tempo della maturità, «quello in cui Leopardi grida il suo appello: io non ho bisogno di stima, di gloria e cose simili, io ho bisogno d’amore».
Ed è questo il messaggio più forte che rimane impresso nelle menti e i cuori dei giovani in platea che ascoltano D’Avenia in religioso silenzio. «Quella richiesta d’amore è ciò che li fa sentire vicini al Poeta. Comprendono la forza di un sentimento che implica la misericordia, il dono di essere ricambiati da qualcuno che ci ama anche per tutte le nostre fragilità. La stoffa della lotta quotidiana di Giacomo è in quel suo “preferisco essere felice che piccolo” ed è questo un altro appello che fa presa sui ragazzi. Così come la sua voglia di fuga, di andare al di là della siepe per cercare la felicità: non restare imprigionati (come lui tra i libri) arroccati al colle di solitudine della propria cameretta, ma trovare una via di fuga nella speranza di non scivolare nel “fango” (per la prima volta citato in poesia da Leopardi). Un messaggio per niente pessimista», corregge subito il tiro D’Avenia perché «la missione che Leopardi ci ha lasciato in eredità è quella di resistere alla “seduzione del nulla” creando.
Tutto è vano, ma almeno concediamoci il lusso della malinconia: tutti dobbiamo passare attraverso una notte dei sensi e dello spirito per rivedere la luce della vita nella sua nudità. E alla morte possiamo gridare in faccia: non avrai l’ultima parola, perché io posso creare, continuamente». Questo e molto altro dice il Leopardi de L’arte di essere fragili mentre il greco redivivo «all’uomo, viatore confuso» del terzo millennio manda a dire di riappropriarsi della “krisis”, cioè l’arte di separare il grano per il pane dalla pula e accendere quel fuoco che vuol dire riconquistare - in quanto cittadino - la propria capacità critica e possibilmente tendere a quella sua agognata “società stretta”». È un Leopardi politicamente impegnato quello che propone D’Avenia che si emoziona e commuove quando recita di pancia «Di dolcissimo odor mandi un profumo / Che il deserto consola...».
Sono i versi de La ginestra «su cui il Poeta ha costruito la piattaforma nella quale possono incontrarsi credenti come me - che l’amore l’ho trovato in Dio - e non credenti. Ma ciascuno di noi è chiamato all’appello finale: “riparare”, che per Leopardi vuol dire “amare”. E farlo subito e ora, per far sì che non si avveri una delle sue tante profezie: “O la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto”. E questo, noi esseri fragili non lo permetteremo ». Giù il sipario. Applausi al Prof.