sabato 18 luglio 2015
​​Incontro con uno dei più grandi esempi della "resistenza" sportiva, oro olimpico a Mosca.
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A un certo punto, forse in un istante preceduto, elaborato da millenni, l’ominide cessa di trascinarsi a quattro zampe sulla terra. Si alza. È mutata la situazione dei suoi arti, che non sono più zampe: due gambe, due braccia. Il passaggio al bipedismo è una tappa fondamentale della nostra genesi: concordo con quei paleoantropologi che, registrando i mutamenti funzionali del nostro antenato, attribuiscono la nascita del bipede a un problema di sguardo, di orizzonte. Non può più avere gli occhi soltanto al suolo, certo posizione necessaria a conoscerne le insidie, a trovare il cibo, ma qualcosa, lontano, appare, come irraggiungibile. L’uomo diviene uomo anche grazie al bipedismo, si alza per guardare l’orizzonte. Cambia il suo modo di muoversi, cammina. Da quel momento la storia umana è un incessante cammino, necessario: certo gli asiatici che passano lo stretto di Bering, per divenire poi amerindi, non viaggiano a cavallo.  La storia è un incessante cammino, a volte eroico e premiato, a volte cieco, senza esito. È una marcia di ritorno tragica quella dei Persiani nell’Anabasi. È un cammino disperato quello degli alpini italiani mandati al massacro in Russia. Agli inizi del Novecento l’inglese Shackleton decide di approdare alle coste dell’Antartide, scendere sulla superficie di ghiaccio del continente, con il suo equipaggio, e percorrerlo interamente a piedi. Vuole riscattare l’onore del suo paese: poco tempo prima l’inglese Robert Falcon Scott è stato superato dal norvegese Roald Amundsen nella corsa al cuore del continente appena conquistato, il Polo Sud. Un a gara a piedi, con cani e slitte. Ora, a piedi, Shackleton vuole realizzare l’impresa per il suo Paese. L’impresa conoscerà una tragedia in iniziale: la nave, imprigionata dai ghiacci, dopo nove mesi sarà stritolata: la marcia non sarà più di conquista, ma di sopravvivenza. Si salveranno, dopo tante peripezie, tutti. Camminando. Non si può pensare alla disciplina sportiva della marcia dimenticando che essa ha origine con il nostro desiderio di camminare nel mondo, per seguire qualcosa oltre l’orizzonte. Gesto atletico apparentemente innaturale, la marcia è una forma evoluta e agonistica del cammino. Il cammino dell’uomo, che fu ominide e divenne bipede, e cominciò a percorrere, a piedi, le piste del pianeta. Fatica, carichi di lavoro estenuanti ma mai sregolati: marcia metafora della vita. Maurizio Damilano è uno dei grandi marciatori dell’età moderna. Un campione. Come definirebbe, in base alla sua esperienza, la marcia? «Dal punto di vista sportivo la marcia è la trasposizione agonistica del nostro normale gesto del cammino. Pertanto potremmo dire che le radici della marcia sportiva stanno profondamente nel movimento del camminare anche se interpretate in un gesto decisamente più sofisticato e rispondente a regole ben precise. Dal punto di vista più diretto della mia esperienza, e direi ancor più del mio sentire intimo, la marcia è non solo sport nobile e di grande impatto popolare (specialmente quando ancora tutti camminavano molto nella loro quotidianità e sapevano cosa significasse percorrere decine di chilometri a piedi e a ritmi elevati) ma ha in sé metafore grandissime legate all’idea di conquista (ad esempio marciare verso una vetta – in senso alpinistico e non solo –, camminare per raggiungere un traguardo, marciare su una postazione – in senso militare –, marciare per conquistare degli obiettivi sociali…), a quella della condivisione (fare un pezzo di strada insieme, camminare uniti…), della solidità (di solito camminare garantisce di arrivare in fondo, come dice il detto popolare)». Mi pare che lei non consideri esaurita la marcia con il ritiro dall’attività agonistica, ma che continui, con altra intensità e altre modalità. «Ecco, proprio la passione di cui dicevo, si è poi tradotta nell’ideare una proposta sportiva popolare legata al camminare e al marciare che ho chiamato fitwalking. Si tratta letteralmente del camminare per mantenersi in forma, in salute. È la via del benessere per tutti, ma in fondo un modo di fare sport adeguato alla natura dell’uomo. L’uomo è al centro del sistema camminare e non potrebbe essere diversamente». Lei ha detto, se non erro, che camminare non è solo specialità degli atleti, ma necessità dell’uomo. «L’uomo non potrebbe stare senza camminare (forse senza correre sì). La sua vita ruota attorno al camminare. Oggi ce ne accorgiamo meno perché purtroppo molti camminano poco, ma l’uomo senza il camminare si sarebbe probabilmente già estinto e soprattutto non avrebbe conquistato il mondo». Camminare quindi è più che consigliabile, necessario a tutti? «Non solo è consigliabile ma indispensabile. Sì, in fondo camminare è anche cultura perché camminando si scopre, e lo scoprire il mondo a piedi ha permesso all’uomo di espandere i propri confini. Rivisitare le città in questa ottica credo sia la più grande operazione culturale e di salute che si possa fare. Qui vi è la dimostrazione che non solo nello sport si può camminare, ma camminando ci si può sentire sportivi». Ci illustri, per favore, i vantaggi fisici. E poi quelli psicofisici. «Sono veramente tanti i vantaggi per il corpo e per la mente che derivano dall’esercizio fisico e in primis dal camminare. Intanto si riducono drasticamente tanti fattori di rischio legati alla sedentarietà ed evidenziati dal proliferare delle malattie metaboliche, cronico-degenartive, che colpiscono in modo crescente tutto il mondo e non solo quello “ricco”. Fa bene ai muscoli, al cuore ma anche alla mente. Del resto già gli antichi sostenevano il valore rilassante e rigenerante di una buona camminata. Oggi noi potremmo dire che è un antistress potentissimo. Io personalmente credo che nulla sia più efficace di una buona camminata a passo deciso se si vuole pensare, riflettere, rimanere intimo coi i propri pensieri, ma nello stesso tempo non sentirne il peso. Questo è per il fisico e per la mente una medicina eccezionale». Camminare è quindi un modo di concepire la vita? «Camminare è la vita. Non è solo un concetto. Cosa faremmo senza camminare? Al di là del banale, seppure importantissimo concetto che al camminare, allo spostarsi, all’essere autonomi è legata la nostra qualità di vita, senza camminare saremmo come un uccello senza ali: ci sarebbe tolta gran parte della nostra libertà». Oltre a queste considerazioni, lei è un campione, un grande campione. Non credo si possa diventare campioni, in qualunque sport, senza una forte pulsione agonistica. È d’accordo? «Sono d’accordo, ma ho sempre pensato che il senso dell’agonismo va governato. Essere agonisti non può giustificare qualsiasi cosa sino anche agli atti violenti che alcune volte vediamo nelle discipline sportive. L’agonismo sano è quello che sa valutare il proprio livello e nel contempo rispettare quello dell’avversario. Mi confronto per batterlo, non per abbatterlo». Chi è l’avversario? «Uno che quando lo affronto sportivamente voglio battere, ma so anche che mi può battere. Fuori dell’agone agonistico vorrei fosse sempre un amico. Del resto alla fine chi fa fatica dovrebbe ricordarsi innanzitutto della parola “condividere”. Si condivide molta fatica insieme in uno sport come quello che ho fatto io, perché non condividere anche le vittorie e le sconfitte con serenità?». C’è allegria, nel sacrificio di un marciatore? «Marciare è molto allegro. La fatica è una componente ma non la sola. Quando senti la strada sotto i tuoi piedi, e la senti scorrere veloce, i chilometri passano e tu voli in una dimensione unica, intima, serena: è la cosa più bella e divertente che possa esistere. Ti senti invincibile e capace di primeggiare sul tempo e sullo spazio. Non penso vi possano essere cose molto più gratificanti di queste nel mettere alla prova il proprio fisico e la propria mente».
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