Scuola di Cornelis van Cleve, Madonna con Bambino, 1550 circa, olio su tavola. Cambridge, Fitzwilliam Museum (Bridgeman) - .
Successo è la parola chiave della modernità. Il motore ultimo della rivoluzione industriale, della globalizzazione, delle fortune personali e di comunità. Nel nome del successo il vecchio mondo è stato liquidato e il nuovo ha conosciuto un’espansione inimmaginabile. Il mito della frontiera si è spostato dalla terra al cielo, dalla Luna a Marte, dal sistema solare alle profondità dell’universo. Il successo va di pari passo con il progresso, con il nuovo che avanza, con il benessere… Fa stare comodi, ma non fa stare meglio. C’è sempre un risvolto oscuro, un prezzo altissimo da pagare, in termini di tempo, di affetti, di vite, di ingiustizia, di violenza, di inquinamento… Il successo è vorace, fino a trasformarsi in perdita. È manicheo: non vuole che l’uomo sia uno e separa l’anima dal corpo, lo spirito dalla materia perché tutto sia manipolabile.
Non c’è idolo più sanguinario nella storia dell’umanità.
Affermava Albert Camus: «Dall’istante in cui i principi eterni saranno messi in dubbio assieme alla virtù formale, e ogni valore sarà screditato, la ragione si metterà in moto, non riferendosi più ad altro che ai propri successi. Vorrà regnare negando tutto ciò che è stato, affermando tutto ciò che sarà. Diverrà conquistatrice» (L’uomo in rivolta). Un processo dove tutto si trasforma e nulla resta uguale a se stesso, nemmeno l’uomo, nemmeno la donna: l’imperativo categorico della nuova rivoluzione è quello del flusso continuo. Quanto è triste la dittatura del gender con il suo apparato arcobaleno, apice di quella società liquida che punta a rinnegare il nostro essere a immagine e somiglianza del Creatore, il nostro essere figli. Quando generare non è più legato ad amare, tutto può essere programmato, dalla nascita alla morte. Ma nulla ha meno senso di un’attività febbrile sotto un cielo vuoto. La parabola del successo non conosce lieto fine.
Successo non fa parte del vocabolario cristiano. Gesù non è uomo di successo. Tutti sappiamo dove è nato, tutti sappiamo come è morto. La città dove ha vissuto non era di gran moda neppure in terra d’Israele. E durante la vita pubblica, passata in strada, non ha dove posare il capo. Quando le folle vogliono farlo re non si fa trovare, ma non fugge da quelle stesse folle che lo condannano alla croce. La sua parola chiave è salvezza, in ebraico yeshu’ah, che rimanda a liberazione. La salvezza è domanda radicale dell’uomo e risposta d’amore di Dio. Non si compra e non si vende, la salvezza è dono, come l’amore, il tempo, l’amicizia, la sapienza, la pace, il silenzio, la preghiera.
Per giungere alla salvezza la strada bellissima che Gesù ci chiama a percorrere non è ignota e neppure accidentata. La conosciamo tutti, forse l’abbiamo dimenticata, ma è un vissuto che ci appartiene: ritornare bambini è tornare a essere quel che tutti siamo stati e in modo diverso tutti continuiamo a essere. È Lui che ci attrae, Lui che ci chiede di lasciarci amare, così come ha chiesto ai discepoli di lasciare che i fanciulli lo potessero abbracciare. Ed ecco allora quella luce nello sguardo, segno della gioia incontenibile del bambino che riaffiora: lo sguardo dei veri artisti, dei veri poeti, dei veri mistici, delle persone semplici e umili, quelle che quasi chiedono scusa di esistere.
Quello sguardo luminoso l’ho colto in Giovanni Paolo II e in Anna Maria Cànopi, in Divo Barsotti e in Oreste Benzi. E nei miei quattro figli prima dell’età della ragione. Sì, la salvezza passa attraverso i bambini, non perché privi di limiti e di peccato, ma per il loro sguardo pieno di meraviglia e di stupore rispetto a se stessi e agli altri e al mondo. La salvezza passa attraverso i bambini per la loro fiducia totale, che è consegna della propria vita nelle mani, nel cuore e nella mente della madre e del padre. La salvezza passa per quell’attesa piena di speranza che segna il tempo della crescita dei nostri primi anni, e non c’è ombra capace di soffocarla. La salvezza è la libertà dei bambini, che è lo spazio e il tempo del gioco, la capacità di creare mondi fantastici in cui ritrovano se stessi e gli altri. Certo, la vita non è gioco, ma nel tempo che ci è dato siamo chiamati a mettere in gioco tutto noi stessi perché i talenti non restino sepolti. La salvezza passa per la sete di conoscenza, che nulla ha a che fare con la sete di possesso. È la curiosità fatta di domande, a partire da quella decisiva: la domanda di bene, di bello e di vero che è l’impronta del Creatore nelle nostre anime.
Non solo Dio ci chiede di tornare bambini: ci chiede di accoglierlo bambino. Gesù che nasce a Betlemme non è una favola, è storia. Ma a differenza di tutte le altre storie, in quella notte di duemila anni fa la storia si fa salvezza. Salvezza che è vagito, prima che parola. Un vagito che riecheggia anche nelle notti di questa umanità mascherata e disperata. Anche per noi Dio torna a farsi Bimbo e invoca la mangiatoia del nostro povero cuore per l’unica bellezza che salva