martedì 10 marzo 2009
La mostra a Palazzo Reale mette in vista una panoplia di armature, elmi, spade, per l’arte della difesa, prima ancora che per l’attacco
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L’attesa si addice al samurai, servitore d’alto rango, gentiluomo, cavaliere, guerriero. Attesa del momento propizio, anche, per agire, colpire, conquistare. Così fecero i signori della guerra, gli shogun del cosiddetto periodo Edo della storia del Sol Levante, che controllavano una corte di servitori, feudatari fedeli, i samurai appunto, nell’ora in cui il Giappone mutava la sua storia. Siamo nel 1603 e di questa età, proseguita fino al 1867, prima della ripresa del potere assoluto da parte dell’imperatore, se ne ha un senso di potenza riflessa nella teoria di armature, elmi e accessori della collezione Koelliker e delle raccolte extraeuropee del Castello Sforzesco, in mostra fino a giugno al Palazzo Reale di Milano. Bellezza e stravaganza in una raccolta che, per numero e qualità, è unica al di fuori del Giappone: novanta pezzi in tutto, e una tale quantità di fogge inusuali per elmi da guerra o armature da parata, che danno più che un’idea di quale civiltà complessa fosse questa, e quale desiderio di perfezione animasse le scuole di armaioli dell’epoca. Da qui una riflessione: se l’obiettivo posto è quello della conoscenza e della diffusione presso il grande pubblico di cosa fosse esattamente l’età dei samurai, per togliere il velo su certe mitizzazioni, può ritenersi raggiunto. E dà ragione della prima necessità che un uomo, per quanto coraggioso, abbia in guerra: l’arte della difesa prima dell’offesa. Questa filosofia d’impiego dell’armatura spiega il perché, fin dal cosiddetto periodo Kinsei ( dal 1573 in poi), gli armatori si concentrarono sulla protezione totale del corpo del guerriero: da qui i notevoli aumenti del peso complessivo delle armature e il vasto impiego di piastre d’acciaio, rispetto alle tradizionali legature dell’età storica precedente. Segno anche del mutamento dei tempi: se fino al 1500 si combatteva prevalentemente all’arma bianca, da questo momento in poi, l’uso di archibugi e moschetti rese necessari i ridimensionamenti anche alle protezioni del corpo. Le tecnologie occidentali vennero assimilate e utilizzate per le necessità dei cavalieri d’Oriente e i pezzi forti delle armature, soprattutto il kabuto, cioè l’elmo, diventarono particolarmente ispirati. In mostra, una sala intera è destinata a questa protezione, con un certo rilievo per gli elementi decorativi posti sulla zona frontale: libellule, farfalle, aragoste, dragoni apotropaici, ma anche rare conchiglie ricoperte in oro massiccio e corna che si diramano in palchi sottili. Oltre agli elmi, sfilano preziosissimi scettri di comando piumati, accessori per moschetto sbalzati, archi, frecce, e le famose katane, spade dalla lama tagliente, addirittura ventagli laccati di rosso. In questa ricchezza di panoplie, appartenute ai daimyo, cioè ai samurai di alto rango, in cui si va dall’ammirazione per le rarissime protezioni in pelle di razza alle lacche cesellate e dorate - compresa un’armatura per montatura a cavallo con nappe rosse e sella dorata - si apre infine uno squarcio sulla modernità. Nell’ultima sala i curatori svelano come e perché il modello delle armature dei samurai sia stato un punto di partenza per i disegnatori di manga e dei robot più famosi degli anni Ottanta. Da Mazinga a Jeeg Robot d’Acciaio, la struttura delle armature delle altre sale, in tutte le sue articolazioni, si materializza in un cartone. Ma, a parte questo, nessuna differenza: gli ideali espressi nel bushido, la via dei samurai, cioè il senso della lotta al servizio al bene, rimane invariato. Anche con due secoli di distanza e la tivù nel mezzo.
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