Mario Pomilio
Come nasce il volume miscellaneo curato da Flavio Felice, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, intitolato Lo sguardo politico dei grandi narratori pubblicato da Rubbettino (Pagine 140, euro 16) e qual è l’idea di fondo che lo sostiene? È il direttore de “l’Osservatore romano”, Andrea Monda, a raccontarci nella Prefazione al volume che gli scritti qui raccolti sono già apparsi, "sotto forma di singoli articoli", sulle pagine del suo quotidiano e sotto l’egida del rapporto tra Letteratura e Politica, accampando una schiera di scrittori scelti tra Otto e Novecento: Leopardi e Manzoni, l’americano James Fenimore Cooper e Dostoevskij, Eliot Orwell e Huxley, Camus e Mario Pomilio, David Foster Wallace. Ma è nella Postfazione, affidata al filosofo Dario Antiseri, significativamente intitolata In che senso arte e letteratura offrono conoscenza con mezzi non scientifici, che si costituisce la prospettiva entro cui leggere i singoli saggi.
Antiseri convoca Gadamer, Popper, Cassirer, ma anche Heidegger, Giorgio Pasquali, Noam Chomsky, Italo Calvino, Ezra Pound, Carlo Bo e soprattutto il filosofo americano Nelson Goodman, il quale, "più di ogni altro", ha ai nostri giorni indagato nel modo più "interessante" e "profondo" "sul carattere cognitivo dell’arte", per arrivare a sostenere che, se la "scienza è monoglotta", l’arte "è invece poliglotta", facendoci "conoscere realtà e situazioni disparate utilizzando strumenti e registri linguistici diversi". Difficile non concordare sul fatto "che ignorare i grandi scrittori e i grandi poeti, vivere a distanza dalle opere d’arte", significhi in qualche modo "condurre una vita spiritualmente più povera". Antiseri, sulla scorta di Goodman, non ha dubbi che, "in quanto modalità di scoperta", le arti debbano essere prese in considerazione "non meno seriamente delle scienze", anche perché "raffigurazioni o descrizioni di personaggi inesistenti" possono dirci molto sul mondo. Così Goodman citato da Antiseri: "chiedersi se una persona è un don Chisciotte o un don Giovanni è una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica”.
Quando nel 1923 fu introdotto con la Riforma Gentile l’insegnamento dell’economia nelle superiori, Luigi Einaudi, "già allora uno dei più noti economisti del Paese", intervenne sul “Corriere della Sera” per avvertire che, "mentre la lettura di certi compendi d’economia" non avrebbe prodotto fra i più giovani "alcun frutto se non di noia", esito probabilmente più fortunato avrebbe invece ottenuto chi avesse saputo "far penetrare i giovani nello spirito dei capitoli economici dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni". Einaudi non avrebbe potuto immaginare che decenni di obbligo scolastico avrebbero reso quel capolavoro uno dei romanzi più invisi e incompresi della storia della letteratura italiana. Leggo queste informazioni nel brillante saggio di Alberto Mingardi, in cui ci si prova a dimostrare come il gran lombardo fosse "un attento studioso di economia", restituendoci nelle sue pagine, tra molto altro, anche "un saggio perfetto di quella che Frédéric Bastiat (…) considera la differenza fra un buono e un cattivo economista". Se l’articolo del giovane Nicolò Bindi dedicato al Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani risulta onesto ma scolastico, più attraente sembra senz’altro il contributo di Alberto Giordano, che si cimenta con Cooper, noto in tutto il mondo per il romanzo L’ultimo dei Mohicani, qui però indagato per un’opera politica del 1838, The american Democrat. Dico Cooper: colui che, con uno sguardo tutt’altro che pacificato, "celebrò l’intraprendenza, l’audacia, l’onestà e il senso di giustizia dell’americano medio". Ricchi di spunti sono gli articoli di Maurizio Serio su Dostoevskij (e l’identità russa) e di Angelo Arciero su T. S. Eliot, concentrato sulla "difesa del prepolitico", ovvero "quel dominio della morale e della teologia in cui trovavano spazio gli interrogativi fondamentali del pensiero politico". Ma è l’intervento di Alfonso Lanzieri sull’ultimo romanzo dell’ormai mitizzato David Foster Wallace, Il re pallido, là dove si racconta "la vita degli impiegati dell’Agenzia delle Entrate degli Stati Uniti", a fornirci maggiori suggestioni, restituendoci "un’epica della noia", da non confondere assolutamente con "l’elitario spleen degli esistenzialisti".
Ho lasciato per ultimi i veloci saggi di Danilo Breschi su Albert Camus (che è anche l’autore d’una convincente comparazione tra le differenti distopie di Orwell e di Huxley) e di Valerio Perna su Mario Pomilio, proprio perché incarnano una figura di scrittore che, pur confrontandosi con le ideologie dominanti dell’epoca cui appartennero, lo ha fatto in una posizione originale e solitaria, irriducibilmente anticonformista. Scrive Breschi: "Ho sempre colto in Camus l’antitesi al dandy, perché l’opera d’arte ha ricalcato in lui l’uomo che precocemente è diventato, subito collocato a metà strada fra la miseria e il sole". Nato in Algeria e quasi subito orfano di padre, consegnato a un "assurdo" che è quello di un mondo "privato di ogni valida ragione per restarvi, una volta nati", Camus –"esattamente come i due protagonisti del suo romanzo più celebre, La peste (1947)" – si trovò in bilico tra due fedeltà: quella alla “bellezza”, glorificata dalla luce assordante d’un sole meridiano, e l’altra agli “umiliati”, in obbedienza a un istintivo senso di rivolta, sempre fuggendo quello spirito gregario e partigiano che fu di moltissimi della sua generazione. Altrettanto non allineato fu il percorso di Pomilio, l’appassionato lettore di Manzoni, l’autore di Il quinto evangelio, il cristiano "precursore prima, e portavoce poi, della disposizione religiosa successiva al Concilio Vaticano II", che incontrò anche il socialismo come «utopia morale», per un vivo senso della storia intesa religiosamente «come direzione verso il trascendente».