Omar Daffe
«Dal primo momento che è scoppiato il “caso Acerbi” ho solo sentito parlare delle ipotetiche 10 giornate di squalifica che dovevano dargli... Ma le punizioni non sempre sono l’unica risposta efficace contro il razzismo. Tutti noi dobbiamo capire che l’antirazzismo si fonda sull’educazione, per i piccoli, e sulla formazione, per gli adulti. E questi due cose vengono molto prima della punizione».
Parola di Omar Daffe, con il quale più si discute e più comprendiamo quanto sia vero e attuale il monito canoro del rapper tunisino-milanese Ghali: «Ma quale è casa mia, ma quale casa è tua».
Messaggio in bottiglia recapitato dal mare pop sanremese a tutti quei malpensanti, specie del Palazzo della politica, al quale sfugge ancora la fotografia di un Paese multietnico, in cui per fortuna sono dati in sensibile aumento “gli Omar Daffe”. Senegalese, classe 1982, vent’anni fa Omar è arrivato in Italia per continuare a coltivare il suo sogno: giocare a calcio. In Senegal militava nello Stade de Mbour, un club di serie B, «ora è in A», precisa Omar. E anche da noi è stato a un passo dal debutto tra in B, con il Modena. Ma la legge Bossi-Fini fece saltare tutto. «Ero stato tesserato dal Modena, ma come extracomunitario, e così mi misero sul mercato. Da allora ho girovagato nel dilettantismo».
Vent’anni dopo è ancora quel calciatore-lavoratore, con trascorsi da impiegato ai magazzini della Ferrero e poi in una concessionaria della Peugeot. Nel frattempo ha messo su famiglia con Valeria, «ragazza napoletana» e i due figli «Ismael 15 anni e Ibrahim Sebastian 6, entrambi nati qui in Italia, naturalmente». Lavorare per mangiare e il calcio per continuare a coltivare su un campo il sogno fatto da bambino in Senegal. E così, a 42 anni, Omar ogni settimana difende ancora i pali del Marzolara. «Gioco in Prima categoria nella squadra di un borgo alle porte di Parma, la città dove vivo».
Il Marzolara è orgoglioso di avere come tesserato l’unico calciatore impavido che ha avuto il coraggio di interrompere una partita per insulti razzisti. Sono passati cinque anni da quella “maledetta domenica” di Bagnolo in Piano, in cui Daffe, allora portiere dell’Agazzanese (Eccellenza emiliana), investito dalla violenza verbale di un tifoso di casa uscì dal campo e con lui tutti i compagni di squadra, solidali con il suo gesto che costrinse l’arbitro a decretare anzitempo la fine della partita. Risultato finale: Daffe si beccò un assurdo turno di squalifica, la sua squadra il 3-0 a tavolino in favore della Bagnolese. Ma in compenso la storia esemplare di Omar fece il giro del mondo ottenendo il plauso generale e la convocazione dalla Lega di Serie A. L’ad Luigi De Siervo lo nominò responsabile del neonato Ufficio antirazzismo del calcio professionistico italiano.
Daffe, ora che ha doppia responsabilità, è un calciatore tesserato e rappresentante della Lega di Serie A, rifarebbe quell’uscita definitiva dal campo?
Se si verificasse ancora, e con la stessa dinamica, un episodio di razzismo come quello che ho subito non ci penserei un secondo a lasciare il campo. Allora la rabbia maggiore fu quella di non sentirmi tutelato, a cominciare dall’arbitro.
L’arbitro quel giorno non difese il suo gesto?
No, non lo fece e il suo atteggiamento ha avuto un peso determinante nella vicenda. Alla terza volta che dagli spalti mi sono sentito dare del “negro” l’ho guardato fisso negli occhi... Mi aspettavo la sua solidarietà, perché aveva sentito bene quegli insulti. Invece, il signor arbitro si voltò dall’altra parte e fece proseguire il gioco come se nulla fosse accaduto. Quel giorno ho imparato sulla mia pelle che l’indifferenza fa anche più male di quelle che la senatrice Liliana Segre chiama le «parole dell’odio»…
Il suo collega, il portiere milanista Maignan ha provato ad emularla: forse se non fosse stato un calciatore di Serie A non sarebbe rientrato in campo dopo gli insulti subiti in Udinese-Milan?
Sì, forse se il palcoscenico fosse stato un altro sono sicuro che sarebbe andato fino in fondo e sarebbe rimasto nello spogliatoio come feci io, anche perché, come me, aveva tutto l’appoggio dei suoi compagni che hanno compreso la gravità delle offese. Ma tutti a Udine hanno capito, dagli avversari che fanno parte della squadra più multietnica della Serie A, alla maggioranza del pubblico friulano che non credo, anzi mi auguro, non potrà più accettare in futuro che nel loro stadio si verifichi un altro episodio del genere.
Da noi, si dice spesso che il calciatore deve essere un “modello” per i giovani e per il resto della società.
Personalmente come modello educativo ho scelto mio padre e nel calcio mi sono ispirato a Samuel Eto’o. Ma dobbiamo sempre distinguere il calciatore dall’uomo: a volte al fuoriclasse in campo non corrisponde il campione e il modello nella vita di tutti i giorni.
Si parla sempre di razzismo contro i calciatori, ma a noi pare che i più discriminati in campo siano sempre gli arbitri?
Il direttore di gara è il più colpito da tutto e da tutti. Ma tutte le discriminazioni sono violenze che non dovrebbero avere a che fare con lo stadio, che erroneamente viene ritenuto “zona franca”. Non è così, lo stadio è il luogo dove si dovrebbe offrire uno spettacolo per famiglie, due ore di puro divertimento in uno spazio pacifico, non violento.
C’è qualche episodio che può far pensare anche a un razzismo al contrario?
Non credo, io provengo dalla terra della teranga, «dell’ospitalità», che è sacra, per cui diciamo che lo straniero a casa nostra deve essere trattato meglio del senegalese. Chi ha subito razzismo per via del colore della pelle si mette sempre nei panni dell’altro e non vorrebbe mai che la sua dignità venisse offesa. Se poi un calciatore bianco decidesse di giocare nella serie A del Senegal sarebbe venerato, verrebbe considerato un onore averlo in squadra.
Oltre al razzismo, nei nostri stadi viene segnalata l’escalation dell’antisemitismo.
Purtroppo, specie dopo il 7 ottobre e la ripresa violenta dello scontro israeliano- palestinese, ci sono stati dei segnali che noi monitoriamo attentamente. A Milano con il vicepresidente dell’Inter Javier Zanetti abbiamo portato i ragazzi degli oratori e una delegazione dei giovani delle scuole calcio dell’Inter al Binario 21, il luogo nella Stazione Centrale da dove gli ebrei vennero deportati dai nazifascisti. Noi trattiamo qualsiasi forma di discriminazione, dall’omofobia al bullismo. Fortunatamente da quando è nato il nostro Ufficio in Lega Calcio di A in collaborazione con Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) i casi di razzismo sono in calo.
Vuol dire che in questi cinque anni non ha incontrato un altro Omar Daffe che le ha chiesto aiuto dopo un episodio simile al suo?
Purtroppo qualcuno c’è sempre. Personalmente mi sento confortato dagli incontri con ragazzi di terza generazione, figli di stranieri, per i quali sono diventato un punto di riferimento. Quando vengono insultati con frasi tipo «torna a casa tua o negro...», loro si sentono soli, smarriti, e allora mi chiedono consiglio. C’è ancora tanto da fare, ma c’è anche la speranza che con queste nuove generazioni si può seminare bene e fargli capire che vivono in una società multietenica in cui non devono “dimostrare” di essere italiani solo perché il colore della loro pelle è più scuro. Io gli dico: la multidiversità di oggi, sarà sempre più la normalità di domani.
Intanto mai abbassare la guardia e proseguire con le campagne di sensibilizzazione della Lega di Serie A.
Con “Keep racism out”, campagna antirazzista nata nel 2019, giriamo l’Italia passando nei centri sportivi dei 20 club di Serie A dove agli incontri portiamo i ragazzi degli oratori del Csi. Due delle loro squadre, il 15 maggio, giorno della finale di Coppa Italia, all’Olimpico di Roma disputeranno la loro finalissima della Junior Tim Cup. Le società al nostro tavolo mensile inviano sempre i loro “ambasciatori”: per alzare il livello di attenzione dei ragazzi su certe problematiche noi cerchiamo di coinvolgerli il più possibile i campioni.
E i campioni rispondono?
Il 19 marzo la Lazio ha mandato in sua rappresentanza il portiere Provedel con il quale abbiamo discusso di sostenibilità. La Lazio che viene etichettata come la “squadra dei fascisti” è tra le più attive nei progetti solidali e lo stesso vale per l’Hellas Verona che ha adottato una scuola calcio in Kenya. I club dovrebbero divulgare di più queste iniziative, così come i media dovrebbero garantire uno spazio più ampio per raccontare quelle storie positive che rendono il mondo del calcio assai migliore di come a volte viene rappresentato.