La poetessa Elena Švarc (1948-2010) alla fine degli anni ’60 - N. Koroleva-WikiCommons
«La poesia russa è una cosa totalmente incompresa dal mondo, assolutamente esoterica per il mondo », parola di Elena Švarc. È un’affermazione ruvida, ma difficilmente non condivisibile. Perché? Perché la poesia russa, soprattutto quella novecentesca (Mandel’štam e compagnia) «rappresenta, se comparata a quella occidentale, il protrarsi di un fenomeno incomprensibile, una sorta di atavismo esotico. È l’unica a non essere ancora passata tutta intera ai versi liberi, la rima, per lei, non è ancora diventata ridicola. [...] In parole povere: ha ancora un significato sacrale». Nulla di più vero per le liriche della stessa Švarc, raccolte nell’antologia Mattino della seconda neve (a cura di Alessandro Niero; Bompiani, pagine 496, euro 22,00) e divise a metà tra il simbolismo trasmentalista di Velimir Chlebnikov e un impulso erotico-ascetico.
Nata a Pietroburgo nel 1948, Elena Andreevna riesce a diffondere i suoi testi a partire dagli anni Settanta soltanto in samizdat (autopubblicazioni) e tamizdat (edizioni oltreconfine). Il problema principale, per la censura sovietica, riguarda la natura religiosa delle poesie schwarziane, che diventano pian piano oggetto di culto segreto da parte degli happy few. Con l’arrivo della perestrojka le è concesso di dare alle stampe nel suo paese un’intera raccolta: il giorno dell’uscita il libro va letteralmente a ruba. Spesso localizzati in una Pietroburgo in cui dostoevskianamente convivono il concreto e il metempirico, i versi di Švarc sorprendono la «Vergine a cavallo di Venezia» o una «cattedrale arborea» o un «canto d’uccello sul fondo del mare » o, persino, la «resurrezione delle parole»: sono evidenti il gusto neobarocco e il particolarismo esacerbato che complicano i grovigli e gli gnommeri delle callidae iuncturae.
Come osserva acutamente Niero, Švarc «crea microeventi in bilico tra il sublime e il ridicolo (sfruttando quasi sempre quest’ultimo, anziché esserne sfruttata, e mantenendo la vivezza e la spontaneità di un’arte ingenua, ma non sempliciotta), recita a metà tra il faux-naïf e il fanciullesco verace, sfodera uno humour (pietroburghese) che nasce dal cambiamento repentino e immediato delle proporzioni e dei rapporti [...], si ammanta di una ironia “seria” o “romantica”, o addirittura intensamente “mistica” (sulla scorta di uno storico predecessore come il filosofo-poeta Vladimir Solov’ëv), ma di un misticismo, appunto, “ironico e sdrammatizzato”». Poetessa «eterodossa ed eretica», Švarc cita a menadito l’Antico e il Nuovo Testamento, riesuma la figura dello jurodivyj (il “folle in Cristo”), intreccia il cristianesimo a una corona di suggestioni ebraiche e buddhiste. E mette così in atto una specie di «ecumenismo poetico-spirituale» che ha il fine di rispondere a un engagement esistenziale.
Ecco, quindi, il Vangelo d’aria, la buona novella ovviamente apocrifa, narrata da «quattro esseri eterei» (a parlare qui è il cedro): « Abbattuto, / fatto a pezzi, / tagliato / di traverso, / conficcato in terra – / per appendervi il Dio vivente. / Era apparso, Egli, a primavera / come il verde da fronde nodose, / come, fatto e finito, l’Impossibile. / Le Sue braccia sulle mie spalle. / Mi strinsi a Lui, volevo / con l’estrema mia linfa / ridonarGli vigore». Un altro aspetto importante della poesia di Elena Švarc sono i continui depistaggi e camuffamenti identitari: dalla Cinzia di Properzio (« Ecco, Cynthia, il tuo fato infausto: / sai riversare la passione su di te») alla «Volpe cinese» o, ancora, alla Lavinia «monaca folle». Il quadro è quello di una produzione sovrabbondante, docta, che si compiace di prove ecfrastiche (ad esempio il sontuoso Ricordarsi dell’affresco “Battesimo” di Fra’ Beato Angelico vedendo la testa di Giovanni il Battista a Roma).
Lo conferma la filigrana sillabica dei testi: non certo una resa libera, bensì un’audace polimetria o poliritmia (secondo Ol’ga Sedakova si tratta di vere e proprie «avventure ritmiche»), che mantiene sempre, indefettibilmente, il naso all’insù: « Ecco Dio che si allontana a Oriente, / il roveto ha come l’impressione / che gli abbiano staccato la presa, / che la sua carne sia svuotata. / Arriva l’angelo – che è il giardiniere, togliendo polvere al roveto / dice: cresci e cresci, fiorisci, roveto di spine, / ancora utile tu tornerai a Cristo» (Mosè e il roveto in cui apparve Dio).