giovedì 9 maggio 2024
L’ex azzurro si racconta a 20 anni esatti dalla sua ultima partita da professionista: «La finale dei Mondiali del 1994 e il rigore sbagliato l'unica gara che rigiocherei»
L'ex fuoriclasse azzurro Roberto Baggio, oggi 57 anni

L'ex fuoriclasse azzurro Roberto Baggio, oggi 57 anni - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

La vita in un dribbling, e quel che resta di tacco. Senza pizzetto sul mento, e con i riccioli che ora sono bianchi. Ma il Codino resiste. Più o meno Divino. Roberto Baggio oggi sembra un sopravvissuto di quei film dove ti risvegli mille anni dopo e sei ancora quello di prima. «Vivo, cerco di essere felice, mi piace la normalità: coltivo l’orto e guardo poco il calcio», dice. Ma sotto le guance che il tempo ha reso un po’ più rotonde, quel che resta di un campione immenso c’è ancora e non si può cancellare. Lo incontriamo a Milano, inaspettato testimonial di Antera, un produttore di cerchioni per auto di lusso con una pantera come simbolo. “Dove l’istinto incontra il genio, il mito diventa leggenda” recita il claim dell’azienda, che funziona anche per lui. Per questo l’hanno scelto, e poco importa che a Baggio le fuoriserie non interessino proprio. Lui guida ancora solo la sua Panda 4x4. E la tecnologia, aggiunge, lo spaventa parecchio. Si è sempre tenuto lontano dai riflettori da quando ha spento quelli del pallone. Netflix gli ha dedicato un film dove appare in trasparenza, lento, bucolico, attraversato da una serena malinconia, che non lascia traccia. E l’impressione è che non voglia lasciarla.

«Non ho scelto di stare ai margini – spiega -. È solo che ho già dato. La vita mi ha offerto molto, l’importante è saper cogliere le cose buone con semplicità, perché a volte sembra che se non facciamo qualcosa di incredibile non si riesca a essere soddisfatti. Invece la felicità si può raggiungere anche con le piccole cose, quelle che fanno tutte le persone al mondo. Alzarsi la mattina e creare qualcosa che ti dia soddisfazione è già moltissimo…». Ricordare stanca, ma con lui è impossibile non farlo: Italia ’90, Usa ’94, Francia ’98. In azzurro 27 gol, in 56 partite, uno ogni 186 minuti, 9 reti ai Mondiali, uno dei migliori marcatori di sempre. E poi due scudetti, una Coppa Uefa e un Pallone d'oro, vinto nel '93. Roberto Baggio è stato questo, e non solo. Anche se non gioca più da vent’anni esatti - 16 maggio 2004, Milan-Brescia - lo sentiamo profondamente nostro, da sempre. Ma Baggio c’entra poco con noi. Con il pallone ai piedi è stato l’italiano più brasiliano che sia mai esistito. Scartava, saltava l’uomo, tornava indietro, tutto di piede, di finte, quasi nulla di testa, nel senso del colpo. Com’era bello fare il numero 10. «Ma è sempre stato difficile, anche ai miei tempi, quando non marcavano feroci come adesso. Eravamo sempre discussi. Ora ce ne sono di meno, sono un genere in via di estinzione. Perché? Non lo so. Bisognerebbe stare dentro il mondo del calcio di oggi per capire le ragioni di questa eclissi della fantasia. E io non ci sono. So solo che per me quel numero corrispondeva al desiderio di giocare, di inventare, di sentirsi liberi».

Ognuno ha il suo karma. E quello di Baggio è stato di arrivare sempre a un passo dall’infinito. «Non sono stato fortunato. Ho fatto tre mondiali in cui sono uscito sempre per i calci di rigore…». Lo dice piano, e capisci che non è bello avere i conti in sospeso con i ricordi. Tengono sempre la luce accesa dove vorresti spegnerla. E il suo ricordo fisso è fisico, torna a quel dolore che è stato il compagno di viaggio scomodo e costante della sua carriera. Due menischi in meno, i legamenti di un ginocchio ricostruiti, tre operazioni, due anni senza giocare. «In quei frangenti è stato fondamentale capire che tutto dipendeva da me, che dovevo smetterla di lamentarmi della sfortuna o degli altri, che dovevo reagire. O farmene una ragione…». A lungo ha pensato di non farcela, che non sarebbe tornato più in campo, che c’era solo una cosa peggiore di un destino bendato, incerottato e pieno di punti di sutura. Quello di non averne uno.

Prima, e dopo, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Ma se gli chiedi qual è stata la squadra dove ha preferito giocare, ti risponde: «le giovanili del Vicenza, senza dubbio». Baggio è questo, lo è sempre stato. L’Argentina come sfondo e vacanza preferita, la terra umida, la caccia e le anatre, quelle vere e quelle di legno e di sughero che colleziona ridendo e commuovendosi, gli oggetti vecchi. Caldogno, nel profondo Nord-Est il suo piccolo mondo da giovane campione con la villa che si costruì evitando di farci la piscina, lusso da gente diversa da lui. Fino al rifugio di oggi, sempre campagna di provincia, ad Altavilla Vicentina. «Ho la fortuna di vivere in un posto bellissimo in mezzo alla natura e mi diverto tantissimo in campagna, anche se i campi e i boschi significano dedizione e fatica. Ma va bene così». Filosofico. O più semplicemente in pace con se stesso. «Noi la nostra sofferenza interiore siamo abituati a lasciarla lì, cercando di ignorarla - spiega -. Invece il buddismo ti dice che devi affrontarla perché hai tutte le risorse e le forze per superarla…».

Eccola, la fede. Quella l’ha abbracciata tanti anni fa, e da quella non si è mai ritirato. Convinto, deciso ma lieve come sempre. Qualche anno fa confessò in un’intervista: «Ricordo che la prima volta che ne parlai con mia madre lei si girò verso mia sorella e disse: Roberto buddista? Chiama l’ambulanza». Gioia e lacrime. «Ma senza rimpianti», assicura. Mica vero. Quel rigore di Pasadena trent’anni dopo è ancora nei suoi incubi. Finale dei mondiali americani del 1994, Italia-Brasile. «Non la posso dimenticare. Quella sì vorrei rigiocarla. Siamo arrivati un po’ cotti, avevamo fatto i supplementari con la Nigeria e mezz’ora in più, a quelle temperature, ti stronca. Se fossimo stati più lucidi forse sarebbe stata un’altra partita…». Ultimo rigore, Baggio prende una rincorsa lunghissima, batte di destro, il pallone finisce altissimo, il Mondiale è perso. «Ho guardato in basso, avrei voluto avere un badile per sotterrarmi. Non si possono cancellare cose così. Quella finale l’avevo sognata e immaginata tante volte quando ero bambino. Avevo tre anni, ma la sconfitta del 1970 non riuscivo a dimenticarla. Volevo vendicare Riva e gli altri. Era il mio sogno, davvero. E quando è finita così mi è crollato il mondo addosso. In quel momento accusi il colpo – ha sempre ripetuto – ma devi anche decidere chi vuoi essere dopo: puoi piangerti addosso per tutta la vita o puoi alzare la testa e guardare avanti per riscattarti. Quella scelta determina chi sarai in futuro. In questo senso sì, è stato un momento di crescita».

Inutile insistere, provare a ricordare anche il burrascoso passaggio dalla Fiorentina alla Juventus nel 1990, il rigore che si rifiutò di battere a Firenze nel 1991, le divergenze con tanti allenatori, la promessa non mantenuta di Trapattoni di portarlo ai Mondiali 2002. Baggio ha scelto di togliersi il pallone dai piedi, per evitare di inciampare nella nostalgia. O di inventarsi ancora un gol leggero, screpolato come la sua anima. Non ha più giocato, nemmeno per finta. «L’ultima volta è stata la partita per il Papa a Roma, C’era anche Maradona». Era il primo settembre 2014. Una vita fa. «Mi ero allenato tre mesi per non fare figuracce. Andavo apposta a Bologna per tenermi in forma tre volte alla settimana. Poi, alla fine dell’ultimo allenamento, ho voluto provare a tirare qualche punizione. E alla terza mi sono fatto male al muscolo. Uno strappo. La partita era il lunedì, sono arrivato a Roma che quasi non riuscivo a camminare, però ho giocato un tempo, non potevo non esserci».

Ora ha 57 anni, una moglie, Andreina: una sola, sempre quella, un amore da 40 anni. E tre figli. Valentina, che si occupa di marketing, Mattia che fa lo chef. E Leonardo l’unico che gioca a calcio. Dice che questo mondo non gli manca: «Devo accettare il fatto che il tempo è passato, devo mettermi via quella felicità e pensare che oggi posso raggiungerla in un altro modo». E non ha grandi ricette da insegnare al pallone di oggi. Buon senso, solo quello: «Non penso che ci sia meno talento in giro, ma da solo non basta. Servono passione, lavoro. Noi giocavamo sempre e comunque con la palla, era l’attrezzo che non dovevamo mai perdere e abbandonare. Partivamo da quel concetto lì. Oggi sono cambiate tante cose, c’è tanta pressione. Troppa». Con lui è finito un capitolo bello, sembrava che il calcio non avesse più bisogno di fantasia, che considerasse l’estro un reato. “Da quando Baggio non gioca più… Non è più domenica”, cantava Cesare Cremonini. Forse non è la verità in pieno, ma ci assomiglia tanto.


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: