giovedì 7 marzo 2024
Il nuovo libro di Joseph O’Connor narra le gesta del ruvido prete che nei mesi dell’occupazione nazista di Roma creò una rete clandestina per far fuggire prigionieri e civili
Un murale dedicato a monsignor Hugh O'Flaherty a Killarney, in Irlanda

Un murale dedicato a monsignor Hugh O'Flaherty a Killarney, in Irlanda - WikiCommons

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In una notte di dicembre del 1943 una donna guida a tutta velocità una Daimler con targa diplomatica per le strade di Roma. Accanto a lei c’è un uomo vestito di nero, sul sedile posteriore un altro uomo geme di dolore. Indossa un’uniforme nazista ma è in realtà un militare britannico appena evaso da un campo di prigionia. Quando arrivano in ospedale un infermiere si rifiuta di prendersi cura di lui. Allora l’uomo in nero scende dall’auto, apre l’impermeabile e gli mostra il colletto da prete. «C’è un dentista in questo ospedale?», chiede. «Perché?» risponde l’infermiere. «Perché ne avrai bisogno quando ti avrò sgranato i denti uno a uno. Domani mattina vai a confessarti e chiedi perdono immediatamente».

Ambientato nella Seconda guerra mondiale e ispirato alla storia eroica di monsignor Hugh O’Flaherty, La casa di mio padre (traduzione di Elisa Banfi, Guanda, pagg. 352, euro 22), ultimo romanzo dello scrittore irlandese Joseph O’Connor, propone fin dalle prime pagine una potente combinazione di ritmo, suspense e ironia. Al centro c’è lui, O’Flaherty, prete coraggioso originario dell’Irlanda rurale, appassionato di boxe e straordinario conoscitore delle vie della capitale, noto come “lo Schindler irlandese” poiché nei mesi dell’occupazione nazista di Roma creò e coordinò una rete clandestina che lavorava per agevolare la fuga dei prigionieri di guerra e dei civili.

Un gruppo di uomini e donne mosso da un forte senso di pietà e giustizia che riuscì a mettere in salvo oltre seimila persone. O’Connor lo fa rivivere attraverso una narrazione polifonica, in cui la voce narrante in prima persona di O’Flaherty è intervallata da interviste immaginarie ai suoi complici nella rete di salvataggio. Un racconto che si intreccia a lettere private, a sbobinature di trasmissioni radiofoniche, a rapporti dei servizi segreti e a stralci di autobiografie fino a dare forma a un convincente thriller storico.

Siamo nei primi mesi dell’occupazione nazista di Roma. L’Obersturmbannführer Paul Hauptmann, che ha stretto la città in una morsa che limita la libertà di movimento e di espressione, viene informato che Hitler è furioso perché un numero crescente di ebrei e di prigionieri alleati stanno fuggendo dai campi in tutta Italia. Molti di essi si stanno dirigendo verso la capitale nel tentativo di cercare rifugio in Vaticano. Hauptmann (un personaggio chiaramente modellato sulla figura di Herbert Kappler) è convinto che a coordinare le vie di fuga sia un prete attivo nella capitale e ordina ai suoi uomini di catturarlo e ucciderlo. I sospetti del leader della Gestapo sono fondati. Monsignor Hugh O’Flaherty, inviato irlandese in Vaticano, ha preso servizio da alcuni anni al Sant’Uffizio e abita nel Collegio Teutonico, all’interno della Città del Vaticano. Su mandato della Santa Sede, il sacerdote irlandese va a visitare i luoghi in cui i nazisti hanno rinchiuso i soldati alleati di lingua inglese.

Ai prigionieri non si limita a portare una parola di conforto ma annota i nomi dei detenuti e li consegna alla Radio Vaticana affinché li divulghi per dare conforto ai loro familiari. Poi riunisce un gruppo eterogeneo di irlandesi, inglesi, italiani, aristocratici e commercianti nel tentativo di portare in salvo chi sta fuggendo dalla persecuzione nazista. Per non dare nell’occhio formano un coro che si incontra una volta alla settimana per le prove in un palazzo adiacente alla basilica di San Pietro. Alcuni dei personaggi raccontati da O’Connor sono realmente esistiti. Ci sono la contessa Giovanna Landini, in lutto per la morte del marito; Enzo Angelucci, un edicolante italiano; Delia Kiernan, cantante e moglie di un diplomatico irlandese di stanza in Vaticano; la giornalista Marianna de Vries e un prigioniero di guerra britannico che è riuscito a evadere da poco, il maggiore Sam Derry. Tra loro parlano in codice e a ogni sessione di prova ripassano e memorizzano i piani operativi, le vie di fuga, gli indirizzi delle case sicure, le false identità. I fuggitivi vengono stipati in ogni angolo di Roma, “uomini travestiti da frati, che dormono su scaffali di granito nei campanili. Nei bivacchi sui tetti, tra le ciminiere e le piccionaie. L’esercito delle soffitte”.

Il Vaticano, stato neutrale, è l’unico luogo che Hauptmann non può controllare e per questo ospita molti diplomatici e sacerdoti che aiutano gli ebrei e i prigionieri alleati a scappare dalla città. Il titolo del romanzo è una citazione biblica, da Giovanni 14:2 (“Nella casa del Padre mio vi sono molte stanze”), che fa riferimento alla salvezza garantita dal Vaticano ai fuggitivi. Ma è anche una metafora dell’operazione clandestina che O’Flaherty organizzò in quei mesi usando la musica come copertura e scampando, talvolta in modo rocambolesco, ai nazisti che gli davano la caccia, fino a meritarsi l’appellativo di “Primula Rossa del Vaticano”. Con La casa di mio padre Joseph O’Connor torna a cimentarsi con il romanzo storico, nel primo capitolo di una trilogia che dedicherà a Roma ai tempi dell’occupazione nazista.

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