Il regista Alessandro D'Alatri scomparso a 68 anni - ANSA
“E’ finita l’epoca dei maestri, comincia l’era dei testimoni”. Alessandro D’Alatri amava ripetere spesso questa frase di Paolo VI, che considerava rivoluzionaria. E in un mondo di predicatori, Alessandro D’Alatri è stato un testimone (domani 6 maggio si terranno i funerali a Roma, a partire dalle ore 11, presso il Teatro India di Lungotevere Vittorio Gassmann 1, sarà allestita la camera ardente)
Un testimone di coerenza, di coraggio, di impegno civico, di passione, di generosità, di schiettezza e di rigore morale, che lo hanno portato ad inimicarsi tutti gli ambienti che contano, nell’industria come nella critica. Perché lui non separava l’impegno dal successo, non alternava la prostituzione e la beneficienza, non distingueva opere d’autore e lavori alimentari: lui col suo lavoro faceva del bene perché il suo lavoro lo faceva bene.
E’ stato anche un grande testimone del Vangelo. Ma forse in pochi se ne sono accorti. Perché Alessandro D’Alatri non ha girato fiction sui santi, né si è mai fatto vedere con il Papa durante qualche grande evento mediatico; non è mai nemmeno andato ad ostentare la sua devozione in qualche salotto televisivo. Eppure è stato il regista più autenticamente religioso del cinema italiano. E questo semplicemente perché in nessuno dei suoi film - nemmeno in quelli più leggeri – ha rinunciato a trasmettere i valori cristiani. Una presenza etica e spirituale fortissima ha attraversato tutta la sua opera, restando spesso impercettibile: quasi un virus che attacca lo spettatore distratto e ne fa una persona migliore senza che lui nemmeno se ne accorga.
Un filo rosso che lega tutti i suoi “giardini”, dal Giardino dei ciliegi, con cui ha debuttato a teatro da bambino con Luchino Visconti, al Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica di cui è stato interprete da adolescente, fino ai Giardini dell’Edn: il suo film più importante.
Scomodo, non omologabile, anticonformista, “nel mondo ma non del mondo”, capace di passare con disinvoltura da uno spot con John Travolta ad una storia di morti bianche e lavoro nero reinventando generi con l’entusiasmo di un eterno debuttante, D’Alatri masticava cinema sin dall’infanzia ma non si è mai stancato di sperimentare, di esplorare nuovi territori e fuggire da ogni etichetta con un’arte che è quasi un ossimoro: trasgressivamente etica, coraggiosamente popolare.
Non era un regista “confessionale” ma un uomo profondamente innamorato di Gesù Cristo. Un incontro avvenuto a quarant’anni e che ha sconvolto la sua vita e la sua opera.
“E’ impressionante quanto poco i cattolici conoscano i Vangeli” raccontò ricevendo l’Angelo alla carriera al Terni Film Festival nel 2008. “Io avevo seguito il catechismo, l’ora di religione, ricevuto tutti i sacramenti, eppure non conoscevo Cristo. Era il 1995, ero andato a Gerusalemme a presentare Senza pelle e visitai il Santo Sepolcro: vedere quel posto mi ha fatto riflettere sulla figura di Gesù. Così ho cominciato ad approfondire l’argomento leggendo la Bibbia e ho scoperto molte cose, a cominciare dal fatto che conosciamo pochissimo della sua vita: praticamente nulla dalla nascita ai trent’anni”.
Inizia così una vera e propria ricerca sul percorso di formazione di Yehoshua Ben Yosef (è il primo a chiamarlo col suo vero nome) che lo porta a scrivere, insieme all’ebreo Miro Silvera, I giardini dell’Eden: il più rivoluzionario film su Gesù mai girato, che prende di petto il mistero dell’incarnazione attirandosi le critiche tanto dell’ambiente cattolico quanto di quello anticlericale.
“Dio poteva mandare sulla terra un messia già pronto, invece l’ha fatto nascere e crescere, uomo tra gli uomini, quindi con tutte le contraddizioni della carne, e l’ha fatto anche soffrire e morire. Perché, dunque, Gesù sarebbe stato esonerato dai percorsi della crescita? Perché non avrebbe dovuto cercare, come tutti i giovani, la propria strada?”.
I giardini dell’Eden non racconta dunque un Dio che “nasce imparato” ma un giovane in ricerca, con buona pace dei Vangeli aprocrifi ma in piena coerenza con quelli canonici; eppure viene respinto e marginalizzato da un mondo che pretende etichette (i film su Gesù o devono essere tradizionali e devozionali o provocatori e irriverenti).
Per il sottoscritto – che aveva 23 anni – quel film fu una rivelazione: non avevo mai sentito Gesù così vicino: all’improvviso era un ragazzo come me, che aveva condiviso le mie paure, i dubbi, le incertezze sulla strada da intraprendere.
“Enzo Bianchi mi aveva messo in guardia. Non si può fare un film su Gesù che mette d’accordo, se ci riesci vuol dire che lo hai tradito. Molti colleghi hanno smesso di frequentarmi e persino di salutarmi. Ma non ho perso granché, perché penso di aver guadagnato molto di più: per me oggi Gesù è un amico, uno che seguirei in capo al mondo. Perché non è un uomo con la lingua biforcuta: è uno che dice le cose chiaramente, non è mai sibillino o ambiguo”.
La fede ha continuato ad accompagnare il percorso del regista romano in tutte le sue tappe artistiche. Non solo in Casomai (prima storia d’amore in cui il matrimonio sta all’inizio e non alla fine e unico film nella storia del cinema quasi interamente ambientato all’interno di un’omelia) ma anche ‘nascosto’ - quasi un messaggio subliminale - in Sul mare: una storia d’amore tra adolescenti in cui il Vangelo irrompe all’improvviso, come quando la protagonista sta fuggendo dopo essere stata molestata e la cinepresa inquadra una lapide in cui c’è scritto: “Io sono la Resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore vivrà in eterno”.
Nella scena finale quella inquadratura assume un valore profetico: il protagonista precipita da un impalcatura e finisce nel mare, dove nuota accompagnato dalle note di Senza fine di Gino Paoli.
“Certo – mi disse, quando glielo feci notare – ho voluto raccontare la vita eterna. Noi cristiani non dovremmo guardare alla morte come una cosa negativa. E così ho lanciato questa sfida: un lieto fine con il protagonista che muore. Non viene a mancare, perché noi andiamo con lui”. D’altra parte, aggiunse, la vita eterna l’aveva raccontata, pur se in modo giocoso, anche con le celebri pubblicità del caffè ambientate in paradiso, mentre la serie Una telefonata allunga la vita con Massimo Lopez “voleva essere uno spot contro la pena di morte, così come il videoclip diretto per Laura Pausini era la mia parola contro la guerra”.
Il Vangelo, Alessandro, ce l’aveva stampato addosso. Anche fisicamente. Un giorno mi mostrò i tatuaggi che si era fatto sulle braccia: erano le scritte Maria, Cris, Fede, Caro. I nomi della madre, della moglie e delle due figlie. Ma anche – mi fece notare – le parole chiave del Vangelo. A Dio in Tv aveva dedicato anche un documentario Rai, presentato anch’esso al Terni Film Festival, kermesse di cui fu l’ispiratore – nel 2005 – e il padrino per quindici anni, partecipando dieci volte e vincendo cinque premi (quattro Angeli e la Medaglia di San Valentino) dal 2008 al 2022.
Nel 2011 collaborò anche al libro nato dall’esperienza del festival: Tra cielo e terra. Cinema, artisti e religione pubblicato da Pendragon, che raccoglieva saggi e interviste a figure che andavano da Corrado Guzzanti a Carlo Verdone, da Liliana Cavani a Franco Battiato. “Viviamo in una società che non è più abituata ad interrogarsi sulle cose importanti” dice nel libro: “Però la domanda che si vede in giro di questa spiritualità è tangibile. Se non c’è un tempo di riflessione viviamo solo per il presente e abbiamo l’ansia del futuro”.
“La radice dell’infelicità è il desiderio – continua - ravvivare il desiderio serve ad aumentare i consumi, ed esasperare i conflitti sociali serve a rendere le persone più sole, quindi più manipolabili e consumiste. Lo spiego anche in Casomai: l’infelicità è un terreno fertile per il consumo. Non a caso i matrimoni sono sempre più in crisi ma l’industria dei matrimoni è assolutamente florida. Anche l’amore si rottama e in pubblicità il monodose ha preso il posto del formato famiglia. Il Papa, da parte sua, viene lodato quando parla di pace, ma criticato quando parla di aborto. Eppure se è giusto che ci sia una legge che permette di abortire, è anche importante che ci sia qualcuno che dice che è sbagliato farlo”.
“Papa Francesco – disse nel 2021 al Terni Film Festival - sta facendo una vera e propria campagna pubblicitaria sull’amore per la vita, ed è per questo che lo vogliono azzittire. Chi pratica dignità e fratellanza oggi viene considerato un nemico, e questo a prescindere che faccia l’artista, il geometra, il medico, l’imprenditore o il tabaccaio”.
I miie ultimi contatti con Alessandro risalgono a un mese e mezzo fa, per i reciproci auguri di compleanno (siamo nati a un giorno di distanza). L’ultimo messaggio gliel’ho mandato il giorno di Pasqua, ma non l’ha mai visualizzato. E allora ne approfitto per ripeterglielo oggi: “Buona Resurrezione, Maestro!”.