Curtis McCarthy, 44 anni, innocente, è stato condannato a morte per l’uccisione di una ragazza, Pamela Willis, figlia di un poliziotto, coinvolta in una storia di tossicodipendenza. È stato liberato alla fine di maggio del 2007, dopo ventun anni trascorsi nel braccio della morte di McAlester, in Oklahoma. Il duecentounesimo ad essere liberato grazie alla prova del Dna, il quindicesimo condannato a morte.
Mi puoi dire cosa e da quali amici hai imparato di più nel braccio della morte? «Credo di aver imparato da tutti, persino dal personale del carcere. Per prima cosa, ho imparato l’umiltà, che il mondo non gira intorno a me. Che tutti facciamo parte di una comunità più grande e che il mio egocentrismo, l’attenzione ossessiva sulla mia vita, non andava bene. Non potevo vivere la mia vita in quel modo. Ho imparato questo da tutti, comprese le guardie. Ho imparato a non odiare il personale del carcere. Anche se eravamo maltrattati da alcune guardie, ho imparato a non odiarle. Li capisco come esseri umani, che possono sbagliare, che sono vittime di un modo di pensare sbagliato e di un sistema sbagliato, che hanno anche loro i problemi: tutto questo fa fare loro cose che non dovrebbero fare. Esattamente come me. Faccio ancora delle cose che non dovrei fare: sono distratto, non sono puntuale, dimentico i nomi e sono maleducato. Non vorrei esserlo. Ma succede perché sono un essere umano, fallibile. Credo che questa sia la cosa più importante che ho imparato: riconoscere l’umanità nei miei vicini e nel personale che lavorava lì. Anche negli uomini e nelle donne che mi hanno fatto dei torti. Non li odio più. Sono esseri umani e alcuni di loro si trovavano in situazioni difficili. E hanno fatto delle cose che non avrebbero dovuto fare. Certo, questo ha avuto un esito terribile in me, ma attraverso i miei contatti con tutta questa gente e i miei pensieri penso che quando parlo di ira, di rabbia e di vendetta ho capito che questi atteggiamenti non servono niente. Era più importante punire questa gente o educare gli altri, in modo da cambiare il sistema ed evitare che altri soffrano? Qual era il modo migliore per vivere la mia vita? Essere egoista o altruista?».
L’odio e la vendetta non sono mai una soluzione. Secondo me. «È vero. Ho imparato anche questo, che odio e vendetta ci consumano. Non riusciamo a pensare con chiarezza, così costruiamo la nostra prigione. Lo facciamo contro noi stessi. Consentiamo loro di fornire i mattoni e le attrezzature per costruire una prigione intorno a noi stessi in- vece di avere il cervello e il cuore aperti, e la saggezza. Lo vedo in America, quando la gente parla della pena di morte e quando parlano con le vittime di questi delitti terribili, con le loro famiglie. Vedo il loro odio, e non c’è modo di dire: 'Capisco il suo dolore, ma deve superare l’odio. Deve decidere ciò che è meglio per la sua famiglia, meglio per la società e meglio per i prigionieri'. Invece il nostro governo dice: 'Odiare! Uccidere! Vi farà stare meglio'. Ma non funziona così. Si vede come questo distrugge gli uomini e le donne. Ho visto come tutto questo ha quasi distrutto me».
Rinunceresti a quello che hai imparato nel braccio della morte pur di non esserci mai stato? «No. È stata una cosa spaventosa, dover vivere in quella maniera giorno dopo giorno, e ancora il giorno dopo... per anni e anni. Il tradimento, l’isolamento, la violenza, la disumanità e tutta quella morte. Ma credo che mi ha dato saggezza. Per come ho vissuto la mia vita, avrei potuto morire di overdose. Sarei comunque andato in prigione per qualche cosa che avrei fatto. Non voglio minimizzare quello che hanno fatto le autorità – perché hanno commesso un crimine contro l’umanità – lo hanno fatto a me e ad altri. Non minimizzo e non ritengo accettabili quelle azioni, ma devo comunque accettare la responsabilità per le mie azioni. Ho fatto tutto nella mia vita tranne che commettere apertamente un crimine capitale. Ci tengo alle lezioni imparate: non ho appreso da loro – hanno tentato di uccidermi, di schiacciarmi, di utilizzarmi a fini politici – quindi non ho imparato un bel niente da loro. L’ho imparato per me. L’ho imparato dai miei vicini, dalla mia famiglia e dalle persone che mi hanno mostrato amore e comprensione – gli uomini e le donne dell’ Innocence Project e della Comunità di Sant’Egidio –. Non darei nulla in cambio di quelle lezioni e di quella saggezza».
Che rapporto c’è tra la tortura e la pena capitale? «Considero come tortura il modo in cui viene affrontata la pena di morte in America. È una questione talmente politica che tutti raccontano bugie. È tortura doverti presentare davanti al governo: e noi abbiamo una profonda fiducia nello Stato e nelle istituzioni, nella giustizia in particolare, come ci insegnano da bambini. In questo senso, in America, noi restiamo bambini. Il primo istinto è quello di affrontare il governo con fiducia, sapendo che tutti avranno un processo equo. Poi si entra in aula e si sentono dire bugie e si sente odio. Questo è tortura. Perché tutte le tue convinzioni e il tuo orgoglio ti sono strappati di dosso. È tortura doverti presentare in pubblico con le catene, perdere la dignità di uomo. Essere rinchiuso in una scatola piccola tra uomini che sono pazzi, violenti e malati, che non ricevono alcuna cura. Dover tenere sempre gli occhi aperti per garantire la tua incolumità, giorno dopo giorno, perché in cella con te c’è un pazzo e un violento. È come essere in combattimento, in guerra, giorno dopo giorno, tutti i giorni. È la stessa cosa. È tortura tenere la mano di una persona amata e vedere arrivare il governo, lo Stato, che la porta via senza alcuna ragione, la porta nella stanza accanto e la lega a un tavolo e ucciderla: questo è tortura».
C’è una storia di un uomo nel braccio della morte dell’Oklahoma, che doveva guarire prima di essere ucciso, altrimenti non lo potevano uccidere... È una storia molto strana. Me la puoi raccontare? «Credo che tu ti riferisca a Robert Brecheen. Quella è stata la vicenda più assurda e spaventosa che ho mai sentito o visto nel braccio della morte. Il comportamento ossessivo del governo è stato davvero crudele e vendicativo. Robert Brecheen era un detenuto nel braccio della morte dell’Oklahoma. Era lì per morire. Quello che hanno fatto le autorità è talmente terrificante, mostra la pazzia del governo, la sua ossessione per la morte, per uccidere. Robert aveva deciso che non avrebbe dato al governo la soddisfazione di ucciderlo. Ha conservato tutti i farmaci che gli prescrivevano, molti, in una quantità sufficiente ad uccidere. Quattro o cinque ore prima di essere messo a morte per mano del governo, lui ha inghiottito tutti i farmaci. Una quantità sufficiente per morire. Quando le guardie hanno capito che cosa aveva fatto Robert, lo hanno portato di corsa in ospedale e i medici gli hanno salvato la vita con altri farmaci e una lavanda gastrica. Hanno salvato la sua vita. Robert stava morendo per un’overdose e lo hanno strappato alla morte. Poi lo hanno riportato in prigione, e poi, finalmente, lo hanno ucciso: lo hanno legato al tavolo, gli hanno iniettato il veleno e lo hanno ucciso. È stata la cosa più spaventosa e orrenda che ho visto nel braccio della morte. C’è una pazzia, è un’ossessione quella di uccidere. È sete di sangue, anche se il sangue non si vede con l’iniezione letale. Eppure lui aveva fatto esattamente quello che loro volevano fare: ha preso dei farmaci per morire. Ma loro hanno detto: 'Eh no, non è esattamente così che vogliamo che muoia, vogliamo ucciderti con le nostre mani. Ti odiamo a tal punto da aver creato questo rito della morte, e ci piace così tanto che non permetteremo che tu ci batti e lo fai qualche ora prima, da solo. Vogliamo guardarti negli occhi e toglierti la vita, mentre ti uccidiamo, e ucciderti noi'. È una vicenda assurda, insensata, indecente». Il lettino delle esecuzioni del carcere di Raleigh, nella Carolina settentrionale. Sotto, Curtis McCarthy a Roma