«All’inizio c’è stato un triplo salto mortale: mi sono licenziata dal Teatro alla Scala dove ero
étoile del Corpo di ballo per diffondere capillarmente la danza e portare questa forma d’arte in mezzo alla gente, fuori dai grandi teatri, nei piccoli centri, nei cinema, nelle piazze». Da allora sono passati 35 anni. Liliana Cosi ha viaggiato instancabilmente per il mondo «per portare linfa e nutrimento alla parte spirituale dell’uomo che non è fatto solo di materia. La Creazione non sarebbe così bella se l’uomo non fosse assetato di bellezza». Era il 1978 quando la ballerina milanese con Marinel Stefanescu – che per questa avventura ha detto addio all’Opera di Zurigo – ha fondato la Compagnia di balletto classico: da allora i due artisti, prima come ballerini e ora come maestri, hanno portato la danza in 460 città italiane e cinquanta piazze nel mondo mandando in scena oltre duemila spettacoli. Oggi la Compagnia di balletto classico, che conta un organico di 13 ballerini solisti, festeggia i 35 anni di attività al Teatro Valli di Reggio Emilia, città dove la compagnia ha sede e dove, sempre nel 1978, è nata una Scuola di danza: stasera va in scena
Risveglio dell’umanità. «Una delle trenta coreografie – racconta Liliana Cosi – create in questi anni da Stefanescu. Uno spettacolo del 1986 che parla della riconciliazione dell’uomo con la natura. Dopo averlo danzato in tutto il mondo, lo riportiamo a casa, pronti, però, a ripartire per nuove sfide».
Un bel coraggio, signora Cosi, specie in un momento in cui la crisi impone taglia anche all’arte: è di questi giorni la notizia della chiusura di Maggiodanza.La solita miopia di fare i tagli nel campo della cultura non capendo che, invece, è un antidoto alle brutture della società e mette i nostri giovani al riparo da sbandate e cattivi maestri. Tagliare sulla cultura significa lavorare contro il futuro della società.
Cosa significa per voi festeggiate trentacinque anni di attività?Significa che siamo riusciti a resistere al grigiore telematico e industriale che oggi circonda tutto credendo nei valori della bellezza che l’arte ogni giorno ci fa vivere. Con Stefanescu abbiamo voluto partire dal linguaggio classico, quello nel quale ci siamo formati, per creare un nuovo classico: non più le fiabe del balletto ottocentesco, ma temi con i quali scavare a fondo nell’esistenza dell’uomo: sono nati così
Patetica,
Radici e
Risveglio dell’umanità. Mi hanno guidato il dono della fede e la spiritualità di Chiara Lubich che abbraccia tutta la vita dell’uomo, ogni suo modo di esprimersi, arte e danza comprese.
Come è stata accolta questa vostra rivoluzione?Sempre con entusiasmo, abbiamo raccolto molti frutti, ultimo in ordine di tempo l’entusiasmo con il quale siamo stati accolti nella recente
tournée in Russia che ci ha portati a ballare a Ufa, la città di Nureyev.
Quali i momenti da incorniciare in questi trentacinque anni?Quando nel 1983 siamo stati la prima compagnia di balletto a danzare in Vaticano davanti a Giovanni Paolo II, quando nel 1987 ci siamo avventurati nella Cina popolare e quando in piazza Duomo a Milano abbiamo ballato davanti a 10mila persone.
Ci saranno state difficoltà?Moltissime, soprattutto a livello economico, ma le abbiamo superate grazie all’unità di intenti che ci ha sempre sostenuto. Il mio sogno è sempre stato quello di offrire una scuola gratuita per tutti ripensando alla mia storia: sono diventata ballerina perché allora la Scuola di ballo della Scala era gratuita altrimenti i miei non avrebbero avuto le possibilità di farmi studiare. Ma non è possibile.
Le istituzioni non vi aiutano in questo ruolo educativo?Riceviamo scarsissimo sostegno, e non capiamo il perché, dalle istituzioni locali come Regione Emilia Romagna, Provincia e Comune di Reggio Emilia. In molti privati, però, credono in noi. Per sopravvivere dobbiamo far pagare una retta ai nostri ottanta studenti che vengono da tutta Italia e che seguiamo in sala da ballo, ma soprattutto fuori, in convitto e a scuola: sono convinta che la danza non è il fine ultimo della vita, ma un mezzo e cerco di far capire ai ragazzi che prima di tutto loro hanno un valore in quanto persone.