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Pubblichiamo una anticipazione dai capitoli finali del nuovo libro di Christoph Markschies, professore ordinario di Storia della chiesa antica presso l'Università Humboldt di Berlino, Il corpo di Dio. Lʼimmagine di Dio nellʼantichità ebraica, cristiana e pagana (Claudiana, pagine 688, euro 79,00)
Quando si affronta il tema delle differenti rappresentazioni del corpo divino, si ha a che fare non con un pensiero oggi ormai liquidato dell’immagine di Dio di antenati poco illuminati, ma con una grande corrente di tradizioni ebraiche e cristiane e pagane: affermazioni sulla corporeità di Dio s’incontrano quasi a ogni pagina della Bibbia ebraica e cristiana e sono quindi ancor oggi un’eredità comune all’ebraismo e al cristianesimo, anche se dal medioevo queste tradizioni sono state via via rimosse e tolte di mezzo perché considerate ingenue.
Abbiamo visto che non possono essere interpretate semplicemente come concezioni antropomorfe ingenue; secondo queste tradizioni bibliche la corporalità è il culmine dell’operato di Dio in senso del tutto intenzionale – come già mostra la concezione che caratterizza il cristianesimo, di Dio che si fa uomo nella persona di Gesù di Nazaret. L’idea che la corporalità non solo si trova al culmine delle opere di Dio ma anche dice di Dio qualcosa di fondamentale, che è ciò di cui si parla nella tradizione ebraica e cristiana, è in ogni caso un’idea irrinunciabile se solo si vogliano prendere sul serio queste affermazioni bibliche. Detto in altre parole: il Dio testimoniato negli scritti biblici non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene nella tradizione di un’interpretazione platonica della Bibbia.
Nelle tradizioni ebraiche e cristiane come in quelle religiose pagane si possono distinguere, con Marco Frenschkowski, tre forme nel discorso sulla corporeità di Dio: in primo luogo una forma «"epifaniale" (come possono apparire gli dei? Rientrano in ciò anche le tradizioni su cibi degli dei, ecc.)»; in secondo luogo una forma 'cosmica' (il cosmo come corpo vivo della divinità), non necessariamente da intendersi in senso panteistico; in terzo luogo la forma «di un metaforismo monarchico del trono, per il quale i celebri testi attinenti allo Shi”ur Qoma sono da intendere come la versione più intensa, che com’è noto non è documentata unicamente nel giudaismo e inoltre reca in sé un corredo di altre illustrazioni degli dei». (...)
Il quadro tuttavia è esauriente nella misura in cui si è chiarito che nell’antichità pagana, ebraica e cristiana – a differenza del medioevo e dell’età moderna – tali rappresentazioni erano del tutto ovvie e le si poteva incontrare sia tra gli intellettuali sia tra la gente comune. Non si potrà certo contestare che nei testi biblici (e non solo) la concezione di una corporeità di Dio faccia parte di un’immagine del mondo mitica. Comunque si definisca la difficile nozione euristica di "mito", la sua caratteristica è che tutto vi è pensato come unità di materiale e spirituale, naturalmente anche il mondo degli dei e gli dei stessi. Il mito, inoltre, non conosce fondamentalmente confini, in quanto – come le misure fornite nei testi attinenti allo Shi”ur Qoma– oltrepassa ogni possibile confine di spazio e tempo. Quando secondo questi principi costruttivi si raccontano storie di dei rappresentative, che nella forma di racconti delle origini, di eventi decisivi o di trasformazioni mirano a spiegare il presente, per quanto vi si cerchi di sottolineare il confine tra dei e uomini, tali confini sono anche vaghi: gli dei agiscono come uomini e agiscono con un corpo, così come gli uomini agiscono con un corpo.
Negli ultimi decenni si è fatto chiaro che per l’antichità non si può in ogni caso descrivere tale immagine mitologica del mondo nei termini del semplice dualismo di alternativa ben definita al pensiero razionale (parlando per esempio di "infantile" o di "prerazionale"); l’immagine comporta anche risultati di una spiegazione razionale di Dio, mondo e uomo, che si accompagna peraltro a un sapere quotidiano poco elaborato e a esperienze comuni immediate. A questo punto è necessario avere chiaro che tale "razionalità" del mito corrispondeva a criteri di razionalità del tempo, che in tempi posteriori vennero recepiti soltanto in parte.
L’idea moderna che nelle concezioni bibliche della corporeità divina siano contenuti anche residui di un’immagine mitologica di Dio ha ulteriormente approfondito per il pensiero religioso la problematica dello iato fra i dati storici e le concezioni odierne di Dio. In una celebre conferenza tenuta in circostanze storiche particolari nell’aprile del 1941, il neotestamentarista Rudolf Bultmann (1884-1976) non solo affermava che l’«immagine del mondo del Nuovo Testamento è… mitica» (senza peraltro accennare all’idea della corporeità divina), ma anche faceva osservare che è impossibile «ripristinare l’immagine mitica del mondo», anche se in essa «si riscoprono verità che in tempi di illuminismo sono andate perdute». Nella conferenza ricorrevano affermazioni forti, che suscitarono un dibattito acceso: «nessuna persona adulta si rappresenta Dio come essere che sta in alto nel cielo; il 'cielo' nel senso degli antichi per noi non esiste più». A mo’ di cantus firmus l’aggettivo erledigt (tolto di mezzo, liquidato) accompagna la prima parte della conferenza di Bultmann.
Per il collaudato marburghese, fra le rappresentazioni tolte di mezzo figura anche l’idea di provenienza platonica di un Dio pensato in termini meramente spirituali, che agisce in un mondo caratterizzato e condizionato dalla "corporalità naturale": «Chi comprenda se stesso in termini meramente biologici non capisce che qualcosa di soprannaturale, il pneuma, possa in generale intervenire ed essere attivo nel sistema unitario delle forze naturali». Da questa situazione (e dalla natura stessa del mito) consegue per Bultmann il compito della "demitologizzazione" del discorso teologico. Già nel 1925, riprendendo e interpretando in senso esistenzialista idee di Lutero e di Kierkegaard, Bultmann aveva formulato il principio fondamentale: «se si vuole parlare di Dio, si deve evidentemente parlare di se stessi».
Con simili premesse anche qualsiasi enunciato sulla corporeità divina è ovviamente "liquidato", poiché non rispetta i limiti argomentativi che l’opinione comune odierna impone al discorso. A sostegno di questo modo di vedere si potrebbe anche aggiungere che le rappresentazioni della corporeità di Dio, per quanto riguarda i particolari del corpo, sono rimaste ferme a tempi premoderni, come Robert Musil (1880-1942) affermava senza mezzi termini nel suo romanzo L’uomo senza qualità (1930/32): «Dio è profondamente non moderno: non possiamo pensarlo in frack, ben rasato e con la riga in mezzo, ma alla maniera dei patriarchi».
Il problema per cui nel discorso religioso su Dio vengono fatte affermazioni che soltanto in parte corrispondono a criteri odierni di razionalità non riguarda tuttavia unicamente l’idea di una corporeità divina. Lo mostrano i violenti scontri suscitati dalla polemica del filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) contro le idee di una personalità e sostanzialità di Dio, che fecero seguito alla pubblicazione di un suo saggio nel 1798 – si sta parlando del cosiddetto Atheismusstreit, la controversia sull’ateismo che al professore ienese costò la cattedra. Negli scontri in questione si fece chiaro che gli argomenti addotti fin dall’antichità contro l’idea della corporeità di Dio potevano frattanto essere portati anche contro il discorso della sua sostanza in quanto sostanza particolare ontologicamente diversa da ogni altra sostanza: già nel primo saggio che aveva suscitato la controversia Fichte sosteneva che la nozione di sostanza implica rapporti con spazio, tempo ed estensione, così che l’idea di un Dio sostanza in sé sussistente sarebbe insostenibile. Dio è una sorta di nozione limite di un ordine morale del mondo, che di conseguenza non può essere espresso mediante il predicato di "sostanza" o altri che vi si riferiscano. La concezione di un Dio sviluppata a partire da queste obiezioni, secondo la quale – come osserva in una lettera privata il pastore riformato zurighese Johann Caspar Lavater (1741-1801) – «non può dire: Io sono, un Dio che non è persona, che non ha esistenza, che nulla fa e non dà nulla», è la concezione che nelle sue risposte alla controversia Fichte non ha modificato, ma semmai ha accentuato.
Affermare che l’idea di una corporeità divina è inattuale e che di fronte alla cultura odierna della razionalità può dirsi "liquidata", è formulare un giudizio filosofico più o meno fondato, non è descrivere nell’ottica di una storia delle religioni la religiosità vigente. (...) L’Europa dell’età moderna conosce modi di fondare la dignità inalienabile dell’uomo che non solo rinunciano all’idea di un corpo divino ma anche a una fondazione ultima sul divino in generale. Vista così, la scomparsa progressiva della concezione di un corpo divino appare nella storia della cultura come la prima grande spinta alla secolarizzazione per quanto attiene all’idea di Dio.