Un laboratorio del Festival dell'Istrioto che si è svolto a Sissano, in Istria
Come gli ultimi dei Mohicani. Seduti al banco con quaderni e dizionari come fossero scolari, anche se i capelli spesso sono bianchi. Si consultano, confrontano vocaboli e pronunce, recitano proverbi ereditati dai bisnonni, traducono poesie e canti. Sono gli ultimi a ricordare l’istrioto, una lingua autoctona dell’Istria meridionale considerata dall’Unesco in grave pericolo di estinzione e perciò inserita nel “Red Book of seriously endangered languages”, il libro rosso degli idiomi quasi scomparsi. Per questo sono stati convocati in Istria (attuale Croazia): per richiamare in vita un idioma, prima che si spenga per sempre. Oggi resiste solo in sei paesini – Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, Sissano e Fasana –, e sarebbe affidato alla memoria degli anziani del posto... Se non fosse che alla fine della seconda guerra mondiale l’esodo degli italiani in fuga dal nuovo regime jugoslavo svuotò l’Istria, e nella diaspora gli esuli portarono via con sé anche la parlata: da Torino ad Alghero, dalla Puglia alla Sicilia, da Milano a Roma, ma anche in Australia, in Sudafrica, in Canada. Si stima che oggi nel mondo siano in tremila a parlare istrioto, in gran parte sul territorio italiano. «Spesso sono loro ad aver mantenuto nei decenni l’istrioto originale, perché chi va lontano cristallizza la lingua senza più modificarla, un po’ come succede agli emigranti», spiega Paolo Demarin, presidente della Comunità degli Italiani di Sissano, nonché della Assemblea dell’Unione Italiana di Croazia e Slovenia, «per questo abbiamo deciso di mettere a confronto i nostri residenti e coloro che partirono per il mondo: tocca a noi giovani tenere in vita il patrimonio identitario dei nostri nonni».
Così il “Festival dell’istrioto” per la prima volta dai tempi della guerra mondiale ha riunito i “rimasti” e il popolo della diaspora, raccolto tappa dopo tappa da un pullman passato per Torino, Novara, Milano, Padova e approdato a Sissano con il suo carico di anziani, ma anche di figli e nipoti che in casa hanno imparato un istrioto rimasto inalterato dal 1945. «È una lingua neolatina preveneta, autoctona dell’Istria», spiega Luca Covelli, 36 anni, uno degli organizzatori del Festival, introducendo già la complessità di un idioma in buona parte misterioso. Da non confondersi con il ben noto istroveneto, tuttora molto diffuso in Croazia e Slovenia, «è la prova indiscutibile della romanicità autoctona e ininterrotta nel corso dei secoli dell’Istria. Gli altri dialetti che vi si parlano sono arrivati dopo l’istrioto, che resta quindi l’espressione linguistica più antica ancora esistente».
Ma come mai si è conservato solo in sei paesi? Anche nella grande città, a Pola, era certamente in uso fino a metà ’800, «ma poi venne pesantemente influenzato da altre parlate e infine sostituito dall’istroveneto “polesàn”, specie dopo che l’Austria scelse Pola come base principale della Marina militare asburgica dando forte impulso al porto e richiamando nuovi istriani da ogni dove: tedeschi, ungheresi, veneti, friulani, sloveni, croati, italiani del Meridione». Tre giorni di laboratorio linguistico hanno riportato alla memoria vocaboli e proverbi del favelà (così si chiama l’istrioto in lingua) quasi dimenticati. Tra i testimoni più attivi c’è il maestro Luigi Donorà, 84 anni, direttore d’orchestra e compositore, arrivato da Torino. Per decenni ha raccolto dagli anziani i canti della tradizione popolare della sua terra e li ha armonizzati: «Sono partito esule da Dignano, ma a Torino ho sempre parlato bumbaro (la versione dignanese dell’istrioto, ndr), con mia figlia sto scrivendo un dizionario dei nostri vocaboli». Sua figlia Giuliana, 46 anni, è nata a Torino ma ha il cuore in Istria, «pensare che da piccola mi vergognavo quando papà fuori scuola mi parlava bumbaro – sorride –. Qui al Festival di Sissano è come mettere la macchina d’ossigeno a un malato e vedere che si rialza. Sono felice di vedere in una sola aula tante persone appassionate e di tutte le età: le differenze tra le sei parlate sono evidenti, è interessante».
L’ulivo a Dignano è il vuléio, a Valle l’ulìo. L’insalatiera a Rovigno è la puòdana, a Sissano la piàdina... Un istrioto unitario in realtà non esiste – spiega – ma alcune caratteristiche fonetiche accomunano le sei varianti, ad esempio la massiccia presenza di dittonghi (frouto per frutto, preimo per primo), o il suffisso -o al posto della -e finale ( nuoto per notte, zento per gente, navudo per nipote). Come si vede, la similitudine con il veneto è molto parziale e non basta certo a spiegare le origini di un idioma che è sì romanzo (l’Istria era regione romana), ma basato su un substrato istro, con apporti lasciati dalle varie dominazioni bizantina, longobarda, veneziana, austriaca, italiana... Da oltre un secolo gli studiosi cercano di dipanare la matassa, a partire dal padre della glottologia Graziadio Isaia Ascoli, colui che coniò per il favelà il nome “istrioto”, nato a tavolino. Lo ha di recente adottato anche il vocabolario Zingarelli tra le mille parole aggiunte alla nuova edizione: «Ovviamente non è un neologismo», sottolinea Mario Cannella, storico curatore dell’opera edita da Zanichelli. Che alla fine ha scelto di definirlo 'dialetto neolatinoveneto', tenendo così conto dell’origine preveneta ma da secoli profondamente venetizzata. La querelle non è di poco conto e persino la politica ha orientato il dibattito tra i linguisti del primo Novecento, da una parte propensi a sottolineare la matrice veneta, dall’altra (gli studiosi jugoslavi) l’originalità rispetto ai dialetti italiani. Il linguista Matteo Bartoli riteneva che l’istrioto affonda le radici nella decisione di Ottaviano Augusto di lasciare sul posto i veterani del suo esercito dopo la vittoria, legionari provenienti da Abruzzo e Puglia che si mescolarono agli Istri autoctoni. E numerosi contatti linguistici con l’abruzzese e il tarantino, d’altra parte, erano notati anche dallo storico Bernardo Benussi (teoria suffragata dalla presenza in Istria delle “casite”, uguali ai trulli pugliesi).
Quel che è certo è che per secoli la lingua è stata solo orale e curiosamente la prima testimonianza scritta, del 1835, si deve al canonico Pietro Stancovich, che tradusse la parabola del “Figliol prodigo”: «Oûn omo al viva du fiuòi. El pioûn peîcio da luri ga deîs a su padre: misàr pare, dime la parto de la ruoba ca ma tuca», dammi la parte di patrimonio che mi spetta... E ora? «Il prossimo obiettivo – spiega Demarin – è far dichiarare ufficialmente l’istrioto “Patrimonio culturale immateriale” da parte della Repubblica di Croazia, della Regione Istriana, dei sei comuni in cui è parlato e della intera realtà italofona, quindi della Repubblica italiana, così che venga tutelato ». Il tempo – aggiunge Covelli – non è a nostro favore, lo dimostra il caso di Fasana, dei sei paesi il più colpito dall’esodo, scelto dal maresciallo Tito come luogo di villeggiatura dunque “jugoslavizzato”: «Per questa edizione non abbiamo trovato alcun fasanese madrelingua in vita. La nostra speranza è che ne rimanga ancora qualcuno nella diaspora, là fuori in qualche angolo del mondo...».