martedì 1 febbraio 2022
Il romanziere e saggista rievoca il rapporto di una vita con il veronese in un libro che esce in questi giorni
Illustrazione da “Sandokan alla conquista di un impero“

Illustrazione da “Sandokan alla conquista di un impero“ - Alinari

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Pubblichiamo alcuni brani dell'introduzione di Ferruccio Parazzoli al volume Emilio Salgari. Il grande sogno (Ares, pagine 160, euro 15)


Perché un altro libro su Salgari? Una sterminata bibliografia accompagna l’opera di questo prolifico autore, un’opera che affascina, al di là dei tempi e delle consuetudini, schiere di lettori, ormai in prevalenza adulti, mentre i ragazzi, lettori principali di una volta, sono oggi immersi e persi nei vertiginosi giochi virtuali. Salgari è un santone in vestaglia e ciabatte che non va evocato, icona venerata appesa al muro. Lui e il suo demone. Il fascino sempre vivo dei suoi romanzi di avventura non sta in ciò che il suo demone gli detta, ma in quanto gli fa apparire dinanzi agli occhi della mente e della fantasia come su uno schermo luminoso, immagini proiettate da una lanterna magica: giungle, mari, deserti, ghiacci, praterie.

È il filmato di queste immagini che nella calda quiete di ogni estate, dimentico di ogni sublimità letteraria, vado ancora oggi proiettando, immergendomi nel fiume ora calmo, ora tempestoso che alimenta la mia fantasia fin dall’infanzia. Di Salgari non amo parlare né sentire parlare né del suo stile «piccolo e grande» (Claudio Magris) quale esso sia, non è la sua persona, né il suo vocabolario, né tanto meno la sua sintassi ciò che fa la voce dello scrittore ma è quel demone che egli solo sente e che detta dentro di lui. È quella voce che ci trasposta dai mari ai deserti, dalle giungle ai ghiacci dei Poli. Poi verrà chi, come Mario Spagnol, giustamente sottolineerà in edizioni annotate la precisione assoluta, biologica e geografica delle sue immagini, dell’infinità di piante che si aggrovigliano o s’innalzano fino al cielo, dei tronchi possenti che ci vogliono più braccia per abbracciare, del più piccolo insetto al grande elefante, delle agili gazzelle ai possenti leoni.

Sì, Salgari è anche autore scientificamente autorevole, ma neppure questo per me conta. Non basta apprezzare qualcuno se non lo si ama. L’universo di Salgari non va apprezzato sia pure per il suo indubbio valore, ma va amato. Imparai ad amarlo, ad attaccarmi a lui come a un guru quando, a undici anni, mi strappò dal buio e mi riportò alla vita. Avevo subito due operazioni in un mese ed ero nel letto di ospedale di una piccola città delle Marche a lottare con volontà incosciente, come può lottare un bambino, per uscire da quel buio, che qualcuno mi aiutasse a tornare al gusto meraviglioso ma lontano della vita, non quello di tutti i giorni, amorevole e apprensivo che leggevo nella presenza e nello sguardo di mia madre e di chi metteva dentro la testa a guardare il bambino che aveva sfiorato la morte.

Avevo bisogno di rimettere in funzione la mia fervida fantasia, quella delle azioni eroiche che ci immaginavamo giocando a guardie e ladri nel cortile dei Salesiani, emuli delle cariche del Settimo Ca- valleggeri del generale Custer, abili o sfortunati nello sfuggire agli agguati indiani. Quando cominciai a riprendere un po’ di forze, qualcuno provò a portarmi, come si fa con i ragazzi, libri per ragazzi, libri buoni e belli che mi tenessero calmo e sereno. Non ne ricordo i titoli ma ricordo che tra essi c’era perfino la vita di un bambino santo. Ma infine, forse per grazia dello stesso bambino santo che avevo snobbato, trovai, tra gli altri libri rilegati e illustrati, poco più di un fascicolo, largo, quadrato, stampato su due colonne, copertina a colori: era l’edizione economica di Sulle frontiere del Far West.

Mi piaceva il selvaggio West dei cowboys, degli indiani, dei banditi, delle giubbe blu, chiamati anche «lunghi coltelli». Qualche film di provenienza americana lo avevo già visto nell’immediato dopoguerra, mi entusiasmavo anch’io quando l’ingenuo pubblico delle piccole, fumose, gremite sale cinematografiche dei cinema che, per la loro miseria, chiamavamo tutti con il nome di «pidocchietto », faceva coro all’arrivo dei «nostri», batteva le mani, balzava sui sedili di legno (...) Subito, fin dalle prime pagine, senza menarla per le lunghe con inutili attese, ecco, gli uni di fronte agli altri, da una parte le giubbe blu, dall’altra i pellerossa (ho sempre preferito questa denominazione a quella di «indiani ») che si battevano nella notte e nell’uragano tra le gole dei Monti Laramie. Laramie, un nome che non mi sarebbe mai più uscito dalla mente e che, appena potei, ricercai col dito sulla carta geografica degli Stati Uniti. Eccolo, sulla carta, in quel piccolo segno marroncino non sembrava ci potessero essere le impervie gole di Salgari, una specie di sbaffo nel verde della prateria, un po’ distaccato dalla catena delle Rocciose, ma che, nella realtà, che poi andai a leggermi sui libri, comprende vette che raggiungono i tremila metri. Fort Laramie, un centro vitale di arrivi e di partenze, di corriere della posta, di reggimenti di cavalleria, di carovane, di cacciatori di bisonti, di guide indiane.

Ferruccio Parazzoli

Ferruccio Parazzoli - Siciliani Alberto Della Valle

Fort Laramie, lo cerco ancora in Wikipedia: «Un Comune (town), della contea di Goshem nello Stato del Wyoming. 230 abitanti al censimento del 2010». Una delusione, che farci? Meglio non indagare, il troppo guasta. Tutto qui, dunque, il famoso Fort Laramie? E che importa? Lo vedevo saldo punto di difesa, costruito con palizzate di grandi tronchi, l’ampio portale a stanga da cui entravano gli impolverati Pony Express, i segni visibili degli attacchi indiani o dei banditi. Quelle immagini vivide, tumultuose, dove uomini forti ed esperti vivevano alla ventura, cancellavano il bianco delle pareti di ospedale.

Ormai, qualunque cosa tra quelle pareti mi accadesse, visite di medici, medicazioni dolorose, stringevo i denti, ero un duro anch’io, ero accanto ai falò accesi nella notte attorno a cui fumare la pipa, dormire, fare turni di guardia contro improvvisi assalti di uomini o di animali. Ero con loro, nella sterminata prateria dei bufali, dei mustang selvaggi. Riprendevo la vita sfuggita a quella morte che non avevo mai temuto perché i bambini si sentono immortali. Ero tornato immortale, le ansie di mia madre non mi toccavano, ero lontano, accanto a John lo scorridore, l’indian agent, accanto a Nuvola Rossa, alla feroce Yalla, alla piccola e poi non più piccola Minnehaha. Il film firmato Salgari era per me iniziato, non sarebbe terminato mai più, me lo proietto davanti ancora oggi come quei film che non ci si stanca mai di rivedere non perché siano assoluti capolavori, ma perché ad essi, per un motivo o per l’altro, di scarsa o di assoluta importanza, ci sta attaccata la memoria, e la memoria è vita.

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