Il cantautore Paolo Conte, suonerà il 19 febbraio alla Scala di Milano - Dino Buffagni
Dal Mocambo alla Scala. Dall’ideale locale della sua provinciale quadrilogia da tinelli maròn alla sala del Piermarini. Primo cantautore italiano a suonarci, in apertura di un mini-tour che vedrà l’avvocato di Asti distribuire le sue nobili note d’autore (con l’ensemble- orchestra che lo accompagna trionfalmente da decenni) da Milano il 19 febbraio (soldout in poche ore) all’Auditorium Parco della Musica di Roma (6 giugno), fino all’Arena Santa Giuliana di Perugia il 15 luglio nell’ambito di Umbria Jazz. Altre volte la Scala aveva accolto artisti provenienti da tradizioni diverse da quelle del canone classico, ma è una primizia che si tratti di un musicista “pop” italiano: un riconoscimento della statura mondiale di Paolo Conte, di cui il neo 86enne artista (anche valente pittore) è modestamente consapevole.
«Mi sono esibito in teatri molto importanti di cui mi ricordo molto bene, come la Filarmonica di Chicago o l’Auditorium dei Berliner, i grandi teatri francesi come le Theatre des Champs Elysees e l’Olympia, il Teatro San Carlo di Napoli, tuttavia la Scala rappresenta qualcosa di unico, proprio perché è il tempio della lirica e la lirica italiana è il nostro grande patrimonio artistico. La Scala è certamente il massimo. Rappresenta il meglio che l’Italia ha dato di sé. E’ il teatro di Verdi e Puccini e dei grandi direttori. E’ stato il tempio della Callas. Ci andrò a suonare, ma come spettatore non ci sono mai stato. L’ho vista solo in televisione» confessa ospitandoci nel suo studio legale di Asti, tra targhe Tenco, suoi e altrui quadri e un’atmosfera da leggenda in cui aleggia palpabile “l’arte sacra” di questo nostrano “maestro che è nell’anima” e che il mondo ci invidia.
Ma la lirica le piace?
Ricordo una folgorazione da piccolo. Non so quale aria di Verdi fosse, ma so che caddi dal caval-lo a dondolo per l’emozione. Però poi, tranne ultimamente, non ho mai molto seguito il melodramma. La sinfonica invece sì, da sempre. Comunque riguardo all’opera rimango fondamentalmente un verdiano, a partire dalla trilogia popolare. Anche Puccini è un grandissimo musicista, raffinato, però questo suo muoversi verso l’Oriente ogni tanto gli dà una tinta un po’ troppo languida. E tra i cantanti lirici verdiani e pucciniani il mio preferito rimane sempre Pavarotti.
Che cosa suonerà alla Scala?
Stiamo mettendo insieme il concerto, stiamo provando ma la scaletta non è ancora ben definita. Sicuramente faremo Via con me, Sotto le stelle del jazz, Gli impermeabili e Max.
Max con il suo andamento che richiama il Bolero di Ravel è uno dei suoi brani clou: ci svela finalmente il “segreto” a cui allude il testo?
Purtroppo è un segreto anche per me. Scrivendo io prima le musiche, quando poi mi ritrovo a dover preparare il disco a volte mi accorgo che alcuni brani non hanno ancora il testo. Nel caso di Max ho pensato che possa trattarsi di un tipo grande e grosso che fa un mestiere pericoloso come, per esempio, il domatore di leoni. Ecco, Max è nata un po’ così. Poi nel Quebec, in Canada, durante una tournée ho conosciuto alcuni nativi pellerossa e uno di loro, il gigantesco capo della tribù degli Uroni, alto due metri con spalle enormi, si chiamava proprio Max.
Che effetto le fa essere il primo cantautore in assoluto a entrare nel tempio della lirica?
Una grande soddisfazione. La Scala si è sempre difesa da incursioni di altro genere musicale, è sempre stata fedele al cliché della lirica, tranne rari casi come per esempio il concerto di Keith Jarrett. Per quanto mi riguarda non so se sarò il primo cantautore o anche l’ultimo.
Con lei alla Scala, dove in occasioni come la Prima risuona l’Inno di Mameli, potrebbe ora toccare anche a un altro “inno degli italiani” come Azzurro?
Vedremo. Intanto lo è stato durante la pandemia, quando gli italiani cantavano questa canzone dai balconi.
Com’è nato questo suo concerto straordinario?
L’iniziativa è partita dalla Sugar di Caterina Caselli, è lei che ha contattato la Scala lo scorso maggio e soltanto un mese dopo è arrivato l’ok. C’era però già stato un invito dalla Scala più di quindici anni fa per una serata ma per la data proposta ero impegnato a suonare a Parigi. Anche quella volta, come adesso, il sovrintendente era francese.
Il Premio Nobel Bob Dylan aspetta da 15 anni l’invito della Scala. Che effetto le fa che a lei abbiano invece detto subito di sì?
Non sapevo di Dylan. So però che per gli stranieri poter suonare alla Scala è un traguardo di immenso prestigio. Ma mi pare che quello che hanno scritto i cantautori italiani, e ci metto anche i francesi, a confronto con tutti gli altri non ha paragone. L’Italia ha dato tanto alla musica popolare.
Che pubblico si aspetta per il suo concerto scaligero?
Visto che tanti anni fa ho scritto la canzone Dal loggione, il cui protagonista è proprio un tipo da Scala, mi aspetto anche i loggionisti. Ma di sicuro ci sarà il mio pubblico trasversale che comprende sempre anche tanti giovani.
Spostandoci alla Scala del calcio e alla querelle che dura da mesi, secondo lei San Siro è da tenere o da buttar giù per far posto a uno stadio nuovo?
Io non so che cosa ci sia sotto, quali interessi. Però a me San Siro è sempre piaciuto. Sia da fuori come architettura, sia dentro come visibilità, è proprio un vero campo da football. Io lo lascerei dov’è.
Anche da milanista...
Sì, ma io sono un tifoso molto placido. E poi all’inizio non ero milanista, simpatizzavo per la Juventus. Finché al mare a Sestri Levante , avrò avuto 11 anni, mi vide giocare a pallone in spiaggia un dirigente del Milan vicino di ombrellone, il commendator Menni. Pochi mesi dopo mi portarono a vedere Juve-Milan , la partita di campionato del famoso 1-7, . con il Gre-No-Li a rimontare il gol juventino di Hansen. All’uscita dallo stadio chi incontro? Proprio Menni, che mi dice: hai visto che Milan? Ecco come sono diventato da juventino a milanista. Si capisce come io sia contro ogni forma di tifoseria. Altro che gli incidenti di domenica scorsa. Ma quello non è nemmeno tifo, è solo violenza».