Perché i dazi Usa spaventano: ecco la strategia delle imprese italiane

Dall'automotive all'agroalimentare, ci sono settori industriali che si stanno preparando da tempo all'aumento delle tariffe per chi esporta negli Usa
March 2, 2025
Perché i dazi Usa spaventano: ecco la strategia delle imprese italiane
Fanno male ancora prima di concretizzarsi i nuovi dazi di Donald Trump. Del resto, il precedente abbastanza recente dei
danni causati dalle politiche commerciali restrittive del primo mandato alla Casa Bianca del presidente americano non lascia immaginare scenari positivi all’orizzonte. Così, già in questa fase di annunci minacciosi, l’eventualità di un aumento imminente delle tariffe del 25% sulle esportazioni di alcuni prodotti europei (quindi anche italiani) spaventa per le conseguenze pesanti che può avere sui fatturati di migliaia di imprese di vari settori strategici per l’economia nazionale. Bastano alcuni numeri per capire quanto sia alta la posta in gioco. Le esportazioni verso gli Usa nel 2024 sono ammontate a 68,2 miliardi di euro (pari al 10,7% del totale dell'export), mentre le importazioni hanno toccato quota 29,3 miliardi di euro (4,6% del totale), con un saldo positivo di 38,9 miliardi di euro. Con una quota di export negli Usa che supera il 10% del totale, secondo le stime di Prometeia, i nuovi dazi potrebbero determinare costi aggiuntivi per l'Italia tra 4 e 7 miliardi di euro.
Ovviamente non tutti i settori verrebbero colpiti in egual misura. A pagare dazio sarebbero soprattutto quei comparti d’eccellenza del Made in Italy per cui quello americano è uno dei principali mercati di sbocco: dall’automotive all’agroalimentare, passando per il farmaceutico e la moda.
A far lievitare il conto dei danni non è solo il costo dei dazi in sé, ma i contraccolpi a catena che l’aumento delle tariffe determinerebbe: aumento dei prezzi sul mercato statunitense, conseguente riduzione delle esportazioni di prodotti chiave, aumento delle giacenze nei magazzini con inevitabile svalutazione della merce, riduzione di produzione e occupazione. Senza contare che un commercio in trincea rischia di frenare anche gli investimenti delle imprese. Insomma, ci sono tutti gli elementi per comporre un quadro disastroso.
Quella dei dazi rappresenta una sfida ad alto rischio in particolare per l’industria automobilistica. Muoversi con anticipo, come sta facendo per esempio Pirelli, può risultare una strategia decisiva per limitare al minimo l’impatto negativo dell’aumento delle tariffe. Il mercato nordamericano sta assumendo da tempo una rilevanza sempre più strategica anche per Pirelli. Gli Stati Uniti oggi valgono, infatti, circa il 20% dei ricavi complessivi di gruppo e sono serviti per meno del 10% da una fabbrica locale, in Georgia, per oltre il 50% dal Messico e per il restante 40% da importazioni dall’Europa e dal Brasile.
«Per contenere l’impatto derivante dall’eventuale introduzione di dazi Usa – spiegano da Pirelli – stiamo definendo un piano di mitigazione a medio termine che ci consentirà di conseguire gli obiettivi 2025 di flusso di cassa e deleverage e di garantire il raggiungimento della parte bassa della forchetta della redditività». Tale piano – presentato nei giorni scorsi al mercato – prevede una revisione dei flussi di importazione con un maggior peso derivante dal Brasile, un incremento della capacità produttiva in Usa, una revisione della politica commerciale sulla base di uno scenario inflattivo e un contenimento dei costi ulteriori rispetto al piano di efficienze da 150 milioni di euro già previste. Il mercato ha mostrato di apprezzare la strategia di Pirelli, accolta in Borsa con un + 4,6% all’indomani della sua presentazione insieme ai conti.
Per garantire, inoltre, una crescita a lungo termine in quello che è il maggior mercato High Value a livello globale,
«stiamo valutando significativi investimenti negli Stati Uniti – proseguono da Pirelli – per aumentare la capacità produttiva, forti della nostra leadership tecnologica, dei nostri prodotti connessi, eco safety e della notorietà del brand, grazie anche alla presenza in Formula 1 che negli Usa conta ben tre Gran Premi».
Un obiettivo in linea con la strategia local for local adottata da tempo dalla società per avvicinare le fonti produttive ai mercati strategici, che consente di mitigare eventuali instabilità economiche e finanziarie in tutto il mondo, e che la vede oggi presente in 12 Paesi con 18 stabilimenti.
Passando all’agroalimentare, dalle prime stime diffuse da Confcooperative lo spettro dazi rischia di costare al settore una perdita di fatturato di circa 2 miliardi. E tra i distretti alimentari più impattati ci sarebbe quello dei formaggi. Per Stefano Berni, direttore generale del Consorzio di tutela del Grana Padano, le minacce di questi giorni di Trump sono un déjà vu tutt’altro che piacevole. “I dazi introdotti nell’ottobre del 2019 per 15 mesi su alcuni prodotti, tra cui il Grana padano, produssero danni diretti con un calo delle vendite per noi sul mercato americano di circa il 20% a cui si sono aggiunti effetti collaterali come la svalutazione delle forme di Grana che hanno appesantito i nostri magazzini", ricorda Berni. Se si passasse dal dire al fare anche tra poche settimane, con una reale introduzione di tariffe aggiuntive, le conseguenze negative sarebbero inevitabili: «Negli Stati Uniti abbiamo da qualche decennio un ormai storico dazio del 10% a cui siamo abituati – spiega -. Se ora si dovesse aggiungere un ulteriore 10% sarebbe complicato ma digeribile. Qualora invece si concretizzassero nuovi dazi del 25%, che diventerebbero complessivamente del 40%, le perdite sarebbero ingenti e insostenibili per noi. I dazi fanno male a tutti, ma ancor di più a prodotti come i nostri che sono stagionati, ovvero finiscono sul mercato a distanza di un anno e mezzo dalla produzione, e subiscono una svalutazione del magazzino particolarmente alta». Dalle stime approssimative la mossa annunciata da Trump si tradurrebbe in una batosta milionaria tra danni diretti e indiretti: «Le perdite più o meno si aggirerebbero sui 100 milioni all’anno, che per quattro anni di mandato di Trump significherebbero 400 milioni in meno complessivi. Per il made in Italy agroalimentare in generale, tra food e beverage, si prospettano danni nell’ordine di qualche miliardo di euro».
Le vendite all’estero rappresentano ora il 52% dei consumi totali di Grana Padano. E la quota di mercato dell’export negli Usa sfiora il 9% sul totale (prima area extra Ue: «Per fortuna a livello internazionale ci sono mercati più aperti rispetto al protezionismo americano che si prospetta con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, ma sopperire alle mancate vendite negli Stati Uniti aumentando le vendite in altre aree del mondo richiede tempi lunghi e ingenti investimenti». Berni si augura che il governo italiano riesca a proteggere le sue eccellenze, che altrimenti rischierebbero di essere sfavorite dall’aumento del fenomeno
dell'Italian Sounding da parte di aziende americane o internazionali: «Confidiamo nell’azione di Giorgia Meloni affinché riesca a convincere Trump dell’errore clamoroso che si commetterebbe con l’introduzione di nuovi dazi anche per l’economia americana e più in generale speriamo che le minacce del presidente degli Stati Uniti suonino da campanello d’allarme per creare maggiori sinergie sul piano europeo».

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