Jean-François Millet, “L’Angelus” (1858-1859). Parigi, Museo d’Orsay
Sembra sempre sfuggire un po’ alle maglie della storiografia, la figura del contadino. E dire che ha rappresentato la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità dell’umanità: ma forse il motivo è proprio questo. Perché pretendere di raccogliere sotto un’unica categoria figure tanto diverse come il bracciante e il mezzadro, il piccolo proprietario che lavora il suo podere e il vignaiolo che presta la sua opera a cottimo, rischia di essere una forzatura. Certo, sono uniti da forti tratti di comunanza – lavorare la terra, vivere in campagna, stare a contatto diretto e a volte impari con gli elementi naturali –, ma forse non minori sono quelli di lontananza. Da qui la ricorrente difficoltà per gli storici di inquadrare tante persone in una categoria. Naturalmente non mancano le storie dell’agricoltura, le storie economiche, le storie sociali, le storie dei costumi; ma in queste spesso sui contadini rimane un velo di astrattezza, o di riduzione alla loro mera funzione economico-sociale. Difficile entrare nel vivo e nel vero di tante vite concrete; tra i rari esempi, il vivace racconto di Eileen Power sulla vita di Bodo ai tempi di Carlo Magno (Vita nel Medioevo). Di altri gruppi sociali abbiamo storie dettagliatissime; dei mercanti dell’età comunale, da Francesco Datini in giù, sappiamo quasi tutto – per quanto tutto si possa mai sapere di un essere umano –: come vivevano, cosa pensavano, perfino cosa speravano e sognavano. Alla concretezza della vita contadina, invece, si è avvicinata molto di più la letteratura della storiografia, sia nei ritratti individuali (l’Agostino di La malora di Fenoglio, il Berto di Paesi tuoi di Pavese... ), sia in quelli collettivi (Cristo si è fermato a Eboli di Levi, Il Mulino del Po di Bacchelli...). Oltre, naturalmente, a Manzoni.
Di questi limiti è ben consapevole Adriano Prosperi, emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, che nel suo ultimo lavoro Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi, pagine 324, euro 32,00) si pone dichiaratamente l’obiettivo di superare l’estraneità di sguardo che ha caratterizzato spesso gli intellettuali, e gli storici, verso i contadini. Non che sia mancata l’attenzione, anzi: ma spesso ha mantenuto un che di astratto, nel tentativo di ridurre la varietà delle esperienze a schemi più facilmente riconoscibili. Per evitarlo Prosperi si rivolge alle memorie e agli scritti di due gruppi che storicamente sono stati vicini ai contadini nella loro vita quotidiana: il prete e il medico condotto, quest’ultimo proprio a partire da quell’Ottocento che è l’oggetto specifico del suo studio. Il parroco comprende i contadini perché è uno di loro – il figlio, letteralmente – e ne conosce a menadito i segreti moti non solo della mente, ma anche dell’anima. A lungo è stato l’unico intellettuale mai incontrato da generazioni di contadini, l’unica figura di mediazione tra il volgo e il potere: a volte parteggiando per l’uno, sforzandosi di ottenere maggiore attenzione alle loro condizioni materiali, a volte parteggiando per l’altro, collaborando al mantenimento dell’ordine. Ma sempre stando vicino, dentro al proprio gregge: nelle lettere e nelle memorie dei sacerdoti, Prosperi e i suoi collaboratori trovano miniere di informazioni. Nel Secolo Lungo la figura del medico condotto è stata altrettanto familiare di quella del parroco, con il calesse e la borsa di cuoio a peregrinare di fattoria in fattoria nel tentativo di alleviare le sofferenze di una massa contadina che viveva in condizioni abominevoli. Prima di tutto dal punto di vista sanitario, che stava particolarmente a cuore a quegli scienziati di formazione per lo più positivista.
Prosperi richiama l’influenza delle a lungo indiscusse teorie lombrosiane e «degli sviluppi tardo-ottocenteschi della teoria dell’evoluzione, cioè di quel miscuglio di darwinismo e sociologia spenceriana » sul quale «si era innestata una concezione della lotta per l’esistenza, dove il debole era destinato a soccombere, come un conflitto di razze». I contadini, “razza” da studiare, catalogare e, possibilmente, neutralizzare: è l’atavica diffidenza delle città e dei ceti colti verso la massa indistinta e incompresa del popolo delle campagne, di cui sempre si temeva l’improvvisa esplosione di violenza. «Il medico condotto “sacerdote della scienza”, come molti di loro amarono definirsi », a volte finiva in rotta di collisione con il prete, «figura presente da secoli – prosegue Prosperi – nella società italiana, insediato nella fitta rete di parrocchie rurali grazie al disegno di una Chiesa tridentina tesa al radicamento in profondità nel mondo della classi popolari. Così entrava nella vita quotidiana del popolo, conosceva i problemi materiali delle persone e i loro sentimenti e pensieri». Questi contadini, che di generazione in generazione hanno costituito la gran massa dell’umanità, nel breve volgere di pochi decenni sono scomparsi. Trasferiti a milioni nelle città, sono diventati prima masse operaie, poi lavoratori del terziario, lasciandosi alle spalle, assieme alle fattorie abbandonate e ai campi che stanno pian piano tornando foresta, perfino la memoria di una civiltà millenaria: «Le rievocazioni epidermiche – scrive Prosperi – di festival strapaesani del cibo e del vino sono una dei tanti modi in cui la cultura diffusa tende a cancellare passato e futuro nell’ossessiva dilatazione di un presente fuori dalla storia».
Oggi nelle nostre campagne ci sono i braccianti stranieri, reclutati anche con lo sfruttamento del caporalato: la loro è una storia dolorosa di migrazioni e di sofferenze, che viene già narrata e studiata, ma non è la storia di un radicamento secolare sulla stessa terra, come quella del nostro “volgo disperso”. E poi ci sono gli operatori delle nuove coltivazioni “d’eccellenza” (ma cosa non è “d’eccellenza”, oggi?) orientate alla ricerca della qualità e che alternano tecnologia e purismo ambientale. Ha ragione Goffredo Fofi, nel suo contributo all’ultimo numero della rivista “Vita e Pensiero”, a dire che «i contadini sono scomparsi dalla narrativa italiana ». Ma forse è perché quelli di oggi non sono più contadini: sono agricoltori. E non è la stessa cosa.