“Le 21 donne alla Costituente”, pagina della Domenica del Corriere n. 19 del 4 agosto 1946 - Camera dei deputati, Archivio storico
Il numero ventuno è il 3,8 per cento di 556 e il 9,31 per cento di 226. Semplice matematica? No. Questi dati rappresentano rispettivamente le donne che hanno fatto parte della Costituente (ventuno appunto) rispetto al totale dei seggi (556) e a tutte le figure femminili presenti nelle liste elettorali (226). Liste dalle quali sortirono i componenti dell’assemblea che hanno scritto il testo della Costituzione repubblicana. A dispetto, però, di una presenza che non è fuor di luogo definire esigua, il peso specifico delle donne nella definizione degli articoli costituzionali fu di grande rilevanza. Ventuno, sì, ma preparate, “agguerrite” e soprattutto compatte, anche se venivano da partiti ideologicamente distanti tra loro. Per la precisione, nove dalla Dc, altrettante dal Pci, due dal Psi e una dall’Uomo Qualunque. Un libro che si intitola proprio Ventuno, le donne che fecero la Costituzione (Paoline, 195 pagine, euro 14,00), scritto a quattro mani da Romano Cappelletto e Angela Iantosca, con chiaro intento divulgativo a favore delle giovani generazioni (ma non solo), ci ripresenta ora quella pagina di storia. Giusto a 75 anni dall’entrata in vigore della nostra Magna Charta. L’anniversario ricorre infatti domani, mentre l’approvazione avvenne in aula il 22 dicembre 1947 con 453 sì e 62 no e la promulgazione da parte del capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il 27 dicembre 1947. Gli autori, ad esempio, sottolineano che la pattuglia femminile fu determinante per l’inserimento di concetti che ancora oggi costituiscono punti di forza della Costituzione e un’autentica eredità da trasmettere alle generazioni future. Si pensi ad esempio alla formulazione dell’articolo 3 secondo comma, quello che i giuristi chia- mano dell’uguaglianza sostanziale e che distingue la Carta repubblicana dal semplice riconoscimento dei diritti come si usava nell’Ottocento. Il testo recita: « È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Fu inserito su proposta di Teresa Mattei, la più giovane delle Costituenti, appartenente al Partito Comunista, che viene ricordata anche per aver scelto la mimosa come simbolo floreale dell’8 marzo. Con felice scelta, e sempre avendo di mira soprattutto il pubblico giovanile, i due autori immaginano che a parlare siano loro stesse, le ventuno donne. Emergono così i valori che esse, tutte attive nella Resistenza, trasfusero nei principi fondamentali dell’ordinamento re-pubblicano e che in alcuni casi ancora attendono di essere pienamente realizzati. Come scrive Livia Turco nella prefazione, è «una lezione vivente di “bella politica”: quella del bene comune che costruisce alleanze e stabilisce un legame costante con la vita delle persone». Questo è infatti il dato che più risalta nel libro. L’esercizio della rappresentanza politica come legame con la vita quotidiana delle persone, in quel tempo di rinascita, dopo la tragedia della II Guerra Mondiale, segnato da fame, povertà, analfabetismo, mancanza di lavoro, tra sfollati e bambini abbandonati, e un tessuto umano da ricostruire. Fu anche per merito di quelle donne (Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filomena Delli Castelli, Maria Federici Agamben, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela Maria Guidi Cingolati, Nilde Iotti, poi anche presidente della Camera, la già citata Teresa Mat-tei, Angelina Merlin, che avrebbe legato il suo nome alla legge che vieta tuttora la prostituzione, Angiola Minella Molinari, Rita Montagnana Togliatti, Maria Nicotra Verzotto, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio) che prima della Costituente si era giunti non solo al suffragio universale, ma anche all’elettorato passivo, visto che ancora nel 1945 il governo Bonomi (di cui faceva parte pure Togliatti) non lo aveva previsto e che la norma fu introdotta solo il 10 marzo 1946. E perciò appare ancor più clamoroso il successo elettorale di Bianca Bianchi alla Costituente: prese il doppio dei voti di Sandro Pertini, ma il Psi si affrettò a farle firmare un documento di dimissioni in bianco, mentre i giornalisti scrivevano solo della sua notevole avvenenza e del suo abbigliamento, chiamandola “la biondissima” e sorvolando invece sui temi dei suoi interventi in aula. Diritto di elettorato attivo e passivo delle donne rifluirono egli articoli 48 e 51. Ma fondamentale fu l’apporto femminile anche per la formulazione degli articoli 29,30 e 31 relativi alla famiglia, soprattutto per quanto riguarda «l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi», l’estensione ai figli nati fuori dal matrimonio di «ogni tutela giuridica» e il sostegno economico ai nuclei familiari, specie quelli con molti figli. Anche l’articolo 37 fu elaborato nella sottocommissione in cui furono relatrici Noce Longo, Merlin e Federici Agamben, che rappresentarono l’esigenza della parità salariale tra uomo e donna e la necessità di conciliare vita lavorativa e vita familiare. Videro il convinto apporto delle 21 “madri” costituenti temi come la scuola, l’istruzione, la cultura e – ricorda Livia Turco nella prefazione già citata – anche «la lotta contro gli stereotipi offensivi della dignità e del corpo femminile presenti nella pubblicità». Non mancarono però sconfitte, come la bocciatura dell’emendamento che proponeva l’accesso delle donne in magistratura (e bisognerà attendere fino al 1963 per veder rimuovere il divieto). Così come proporzionale alla presenza numerica generale, fu quella nella Commissione dei 75 che redasse il testo da discutere in aula (solo cinque donne: Iotti, Federici Agamben, Merlin, Noce Longo e Penna Buscemi) e una sola (Mattei) nel Comitato dei 18 che coordinò e armonizzò il lavoro delle tre sottocommissioni in cui erano divisi i 75. Tutti dati che trovano nel testo di Cappelletto e Iantosca preciso riscontro. Tre quarti di secolo dopo si può dire che in quel frangente non contò tanto la quantità, ma la qualità. Ed è una regola da tener presente anche oggi, in tempi di quote rosa e di presenza sempre più larga delle donne in tutti gli ambiti.