martedì 21 luglio 2020
L’allestimento della reinventata stagione estiva dell’Opera di Roma ha suscitato dibattito (come accade sempre di fronte alle rivoluzioni), ma anche nelle atmosfere alla “Pulp fiction” resta verdiano
Il "Rigoletto" diretto da Daniele Gatti e messo in scena a Roma da Damiano Michieletto

Il "Rigoletto" diretto da Daniele Gatti e messo in scena a Roma da Damiano Michieletto - -

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Rigoletto al Circo Massimo, diretto da Daniele Gatti e messo in scena da Damiano Michieletto per la reinventata stagione estiva dell’Opera di Roma, ha vinto. Innovativo, dirompente. Un pugno nello stomaco. Rigoletto che ha la voce rotta e il corpo curvato dal peso degli anni di Roberto Frontali, giostraio che abita in un carrozzone e fa il gioco sporco per un Duca di Mantova che è il capo di una gang di periferia come in un film di Quentin Tarantino (il richiamo a Pulp fiction è chiaro già dai “titoli di testa”). E il cinema, più che l’attualizzazione della storia trasportata in un’atmosfera anni Ottanta (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti), è la chiave dell’allestimento che ha debuttato alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e che Rai 5 ha trasmesso in diretta. Un allestimento che ha suscitato e continua a suscitare dibattito (come accade sempre di fronte alle rivoluzioni), specie sui social tra chi scrive «povero Verdi!» e chi risponde che «l’opera oggi o la si fa così o non parla al nostro presente».

Il Rigoletto di Gatti e Michieletto è profondamente verdiano (tolti tutti gli acuti di tradizione, nessun taglio, scelta di grande intelligenza e valore del direttore che ripensa completamente anche tempi e ritmo della narrazione musicale) e rispettoso dello spirito con il quale il musicista scrisse il suo dramma ispirato a Victor Hugo (i personaggi, maschere tragiche, ci dicono che corrotti, corruttori e vittime sono le stesse ieri come oggi). Vero – e questo sicuramente scuote e inquieta – come un reportage di cronaca che, attraverso Verdi, parla di noi. Un punto di non ritorno per l’opera lirica il Rigoletto romano. Sicuramente perché ha vinto la sfida di tornare a proporre il melodramma dal vivo dopo l’emergenza sanitaria. La scommessa in questa estate dove la parola d’ordine è (dovrebbe essere) ancora distanziamento sociale (nella vita e nell’arte) era appunto quella di capire se si può tornare a fare l’opera. E, soprattutto, come. In forma di concerto, lo sappiamo, si può: orchestra con leggii distanziati, cantanti e coristi a debita distanza. Ma l’opera è teatro musicale.

Michieletto, per rispettare le imposizioni delle regole sanitarie, ha scelto la via del cinema, non semplicemente facendo interagire personaggi e proiezioni (come abbiamo visto tante volte all’opera), ma facendo proprio il linguaggio cinematografico e usandolo per raccontare Rigoletto. Così il palco di 1.500 metri quadrati diventa un set per un film in presa diretta (le prove sono state fatte su un vero set, a Cinecittà) che gli spettatori possono seguire sul grande schermo: tre operatori di steady-cam si aggirano tra auto, roulotte e una giostra riprendendo l’azione (che avviene anche dentro i mezzi) che, montata in regia da Filippo Rossi, diventa un lungo piano sequenza sul quale si innestano flashback (girati grazie al team di Indigo film) che raccontano quel mondo felice di affetti che Rigoletto ha perduto. Rai 5 riprende lo spettacolo, mostrando un po’ il palco/set e un po’ le immagini dello schermo, ma avrebbe forse funzionato meglio mandare il film in diretta. Che arriva (ed ecco l’altra rivoluzione di questo allestimento di cui non si potrà non tenere conto anche una volta che sarà passata l’emergenza Covid) con una verità che inquieta, da cinema neorealista grazie a cantanti (il coro è ai lati dell’orchestra, sostituito in scena da mimi) che sono attori che sanno emozionare: Roberto Frontali offre una tragica disperazione a Rigoletto, Rosa Feola (musicalmente perfetta) è una Gilda decisa a combattere sino alla fine che non si consegna alla morte, ma vorrebbe disarmare Maddalena (Martina Belli) e Sparafucile (Riccardo Zanellato) per salvare il padre e il Duca al quale Iván Ayón Rivas offre squillo e un piglio scenico che sa rendere ancora più fastidioso il personaggio.

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