Il cinema italiano e lo sguardo sul migrante. Un secolo di racconti, film, documentari, finalmente raccolti e studiati con passione ne Il cinema e autori: sulle tracce delle migrazioni, il libro, pubblicato da Ediesse, ideato e scritto da Andrea Corrado e Igor Mariottini. Un percorso storico e culturale, massiccio nella ricerca delle fonti e delle opere, mette a fuoco l’itinerario denso della nostra cinematografia al servizio delle migrazioni interne ed esterne. Sogni e paure, legami e sradicamento, maschere e pregiudizi costruiscono l’architettura narrativa della cinematografia italiana. Dai primissimi film muti (L’emigrante di Febo Mari, La flotta degli emigranti di Vincenzo Morello) il cinema nazionale, «quel linguaggio scritto della realtà» come lo definiva Pier Paolo Pasolini, riesce a gettare luce sulla storia dell’emigrazione italiana, che nel 1913 registra il più alto tasso di emigrazione, con ben 870mila espatri, la maggior parte negli Stati Uniti. Una luce che però a volte, soprattutto nel cinema a cavallo tra il 1929 e il 1943, vuole essere oscurata perché «la migrazione è letta come uno scandalo in senso ampio» spiega Andrea Corrado, autore del libro. «Durante il ventennio fascista il cinema era mascherato come storia di italiani che fuggivano perché erano colpevoli secondo la legge. Era raro che qualcuno fosse raccontato nella sua ricerca di "pane e lavoro" – aggiunge –. Nel dopoguerra opere come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti o Il cammino della speranza di Pietro Germi (Orso d’argento al Festival di Berlino, nel 1950) erano malvisti dall’opinione pubblica. In particolare lo stesso film di Germi non ebbe il sostegno pubblico necessario per poter "esportare" il film all’estero. Si metteva a nudo la miseria degli italiani in un Paese in ricostruzione e lanciato verso un possibile sviluppo. Era meglio non parlarne». Dalle emigrazioni al migrante italiano in terra straniera. Nei primi capitoli del volume gli autori si concentrano sul cinema che va dagli anni del dopoguerra agli anni ’80 quando i cineasti comprendono l’urgenza di allargare il loro punto di vista, narrando gli italiani nel mondo. Come ne I magliari di Francesco Rosi «dove sono raccontate le diverse anime nazionali che convivono nella comunità italiana in Germania: tra furbi impegnati a truffare tedeschi arricchiti e lavoratori sacrificati a schiena piegata nelle fabbriche (…) fino a camorristi e mafiosi che esportano all’estero il malaffare come industria». I cineasti che emergono (Luciano Emmer, lo stesso Aldo Fabrizi nel ruolo di regista, Mario Soldati, per citarne alcuni) sono tanti e il loro punto di vista riesce a colmare quell’esigenza di non aver paura del racconto della vita reale con tutte le sue contraddizioni. Come in Sacco e Vanzetti, il film di Giuliano Montaldo sulla condanna a morte di due italiani innocenti, un pescivendolo e un calzolaio emigrati negli Stati Uniti. Oppure gli stessi "stranieri" in Patria, non solo emigranti meridionali in partenza per il Nord, ma anche dal Nord verso il Sud come ne I fidanzati di Ermanno Olmi (1973) o Delitto d’amore di Luigi Comencini (1974). Un lungo percorso è quello compiuto dal cinema italiano, nel difficile equilibrio di testimone reale e portatore di evasione dalla realtà. Il boom del fenomeno migratorio sembra, perciò, trovare il suo terreno fertile nel genere della commedia «capace di suggerire una via diversa alla rappresentazione, rendendo accettabile l’inferno dello spaesamento». Ne sono un valido esempio due film realizzati nel 1971: Permette? Rocco Papaleo di Ettore Scola o Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa. E mentre si affacciano nuovi registi, prima tra tutti Lina Wertmüller e il cinema diventa naturale testimone dei fermenti politici e culturali, il fenomeno delle migrazioni sembra centrare il focus del suo racconto sullo sguardo degli italiani sugli altri. È la realtà di un’Italia divenuta nuova terra di immigrazioni: lo testimonia nel 2012 l’accurato dossier Caritas dove il numero degli immigrati in Italia sale fino a 5 milioni e 11 mila. Il passato da dimenticare, il presente nella sua tortuosa via, tra corruzione e riscatto, sembrano il fil rouge dei lungometraggi realizzati dalla fine degli anni ’90 fino ai giorni nostri. Come Occidente di Corso Salani (un professore italiano che si innamora di una ragazza rumena dal passato rivoluzionario), Lamerica di Gianni Amelio (preludio drammatico di due imprenditori disonesti che in Albania vorrebbero sfruttare il presente politico post comunista), Saimir, coraggiosa opera prima di Francesco Munzi (menzione speciale al premio Luigi De Laurentiis nel 2004) che racconta la ribellione di un sedicenne albanese contro lo stesso padre, che organizza traffici clandestini e illegali. Tanti i titoli, ma difficile dimenticare anche Lettere dal Sahara, ultimo film di Vittorio De Seta, che ottantanduenne, durante il Festival di Venezia, sfidò il cinema italiano a realizzare più opere d’impegno sociale «su 300 film l’anno i film sull’emigrazione si contano sulle dita di una mano». Per il suo naturale e continuo dramma Lampedusa diventa una naturale terra di racconti, anche per chi deve ancora arrivare, come in A sud di Lampedusa, dove Andrea Segre si trasferisce nel Sahara per rendere visibile il vissuto degli africani in fuga dal loro Paese. «Negli anni ’90 gli autori privilegiano – spiega Corrado – lo sguardo degli italiani in rapporto agli immigrati. Le difficoltà, i dolori e le sofferenze dei migranti non cambiano. Con il tempo, arrivando ai giorni nostri, lo sguardo del regista diventa trasparente, rivelando la curiosità come chiave di una reciproca conoscenza. Ci sono registi che mettono al centro del racconto l’altro, senza percepirlo come estraneo. È un cambiamento di prospettiva importante. Penso ad autori come Vittorio Moroni ne Le ferie di Licu o Claudio Giovannesi in Fratelli d’Italia, senza dimenticare Il mondo addosso di Costanza Quatriglio e Terraferma di Emanuele Crialese (scritto insieme a Moroni, n.d.r). Se dovessi aggiungere qualcosa al libro mi piacerebbe scrivere un capitolo sui nostri cineasti che emigrano all’estero per fare cinema». Un lavoro importante, quello di Andrea Corrado e Igor Mariottini, che attraverso 129 film riesce non solo a tracciare la storia cinematografica delle migrazioni, ma anche a evidenziare la necessità di uno sguardo responsabile, maturo e non giudicante nei confronti dell’immigrato.
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