C’è una vicenda che da quasi 75 anni avvelena i rapporti tra le due maggiori potenze asiatiche . Il Massacro di Nanchino è ormai, più che un tragico avvenimento del passato, evento strumentale alla politica e alla propaganda nazionalista di Cina e Giappone. A dimostrarlo, il 20 febbraio la dichiarazione del sindaco di Nagoya, Takashi Kawamura, che incontrando una delegazione di Nanchino, città gemellata dal 1978 con la metropoli giapponese, ha messo ancora una volta in dubbio le tesi cinesi, per altro maggioritarie. Il massacro (lo sterminio accompagnato da genocidio e stupri sistematici) di forse 300 mila abitanti nel dicembre 1937 «probabilmente non è mai accaduto». La reazione cinese è stata immediata e dura. Nanchino ha sospeso il gemellaggio e le autorità nazionali, per voce di un editoriale pubblicato sul
Quotidiano del Popolo, hanno definito la dichiarazione «non solo ignobile, ma anche frutto di ignoranza». Alla fine del 1937, Pearl Harbour non era nemmeno nei piani dell’esercito imperiale giapponese, ma la conquista della Cina, sì. Quello che non era nei piani degli strateghi nipponici era la capacità di resistenza dei cinesi. Quando nell’agosto 1937 le forze congiunte della decima Armata imperiale e dell’Armata della Cina centrale presero d’assalto Shanghai, si trovarono impaludate fino a novembre in un assedio estenuante che costò decine di migliaia di morti e affondò il morale delle truppe. Davanti a questa esperienza, da un lato la decisione di prendere Nanchino, allora capitale, fu pianificata in modo da minimizzare le perdite, dall’altra per ordini contrastanti e per semplice lassismo, ai militari giapponesi venne di fatto lasciata "carta bianca" una volta espugnata la città. L’assedio vero e proprio iniziò il 9 dicembre e si concluse con l’ingresso a Nanchino, il 13, del generale Iwane Matsui, comandante sul campo del corpo di spedizione ufficialmente affidato al principe Asaka, che venne salvato alla fine del conflitto dall’immunità concessa ai membri della famiglia imperiale. Le violenze durarono settimane e la città fu ridotta a un mattatoio che non risparmiò nessuna fascia di età, sesso o condizione sociale. Davanti alle testimonianze orali, scritte e video-fotografiche schiaccianti (a partire da quelle raccolte dal Tribunale per i Crimini di guerra di Nanchino, che giudicò e condannò a morte i responsabili di quegli eventi) la posizione giapponese, con una reazione che mischia vergogna e orgoglio, è sempre stata di relativizzare l’accaduto, non di negarlo. Non a caso la dichiarazione di Nakamura ha avuto qualche giorno dopo il pieno sostegno dell’ultra-nazionalista governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara. «Voglio essere chiaro – ha detto Ishihara con impeccabile pragmatismo –. Sarebbe stato del tutto impossibile per l’esercito giapponese uccidere 400 mila persone con l’equipaggiamento di cui disponeva allora». Ishihara, non è nuovo a queste manifestazioni di difesa dell’intesse nazionale che nei decenni seguiti al conflitto mondiale ha costretto il Giappone all’angolo delle diplomazie nonostante il primato economico: «Molti dicono che il Giappone è responsabile di un olocausto, ma non è così. Si tratta di una favola inventata dai cinesi. Una bugia che ha macchiato l’immagine del Giappone» Come se non bastasse, il Paese del Sol Levante sembra avere trovato finalmente un gadget da contrapporre al libro-cult
Lo stupro di Nanchino della scrittrice e giornalista cino-americana Iris Chang (1997), che per la prima volta ha sistematizzato il materiale disponibile con una inevitabile carica antinipponica. Tokyo, che sui libri di testo (come per altro fa Pechino per altri eventi storici) nega che le truppe imperiali si siano comportate in modo disonorevole, obiettando che questo sarebbe andato a discapito di un piano egemonico che avrebbe avuto necessità della collaborazione delle èlite e della popolazione locale, sta per rispondere con il film-documentario
The Truth about Nanjing (La verità su Nanchino), del regista Satoru Mizushima. Sarà interessante vedere quali "prove documentali" Tokyo porterà a sostegno delle sue tesi, ma il fatto che Shintato Ishihara abbia applaudito all’iniziativa, qualche dubbio sulla sua parzialità permette di avanzarlo. Un rapporto diffuso il 2 gennaio 2010 in Giappone aveva riconosciuto gli stupri di massa, i roghi e i saccheggi, ma anche confermato il disaccordo sul numero delle vittime, che secondo i cinesi sono tra 300 e 400 mila; tra 20 e 200mila per i giapponesi. Sumio Hatano, docente dell’Università di Tsukuba, tra i dieci storici coinvolti nel lavoro che arrivava per la prima volta a definire l’invasione della Cina «un atto di aggressione», parlò allora di «una quantità di azioni illegali» sulla popolazione civile. Azioni «che hanno lasciato cicatrici profonde che hanno impedito ai due popoli di stabilire nuovi rapporti dopo il conflitto».