Defence Housing Authority: malgrado il nome che sa di dipartimento burocratico e che solitamente è usato in sigla, Dha è una città. Ha oltre 660mila abitanti che vivono in quasi 14mila edifici costruiti su circa 36 chilometri quadrati. La sua particolarità non sta nei numeri, ma nel fatto che è sorta dentro un’altra città, Karachi, la maggiore area metropolitana del Pakistan, tra le più popolose del mondo. Dha è giovane: è nata nel 1980 per decreto presidenziale. Riservata agli alti esponenti dell’apparato della difesa, dispone di ogni sorta di servizi, dai campi sportivi alle università. Ma non ci si può entrare se non si fa parte del “club”, è come un enorme condominio chiuso da un muro di cinta. È un esempio di “ gated community”, di comunità asserragliata. Un fenomeno nuovo nel tumultuoso panorama urbano, del quale si sta occupando, tra gli altri, l’architetto Fabrizio Aimar, che sull’argomento conta di pubblicare presto le ricerche che da tempo conduce. E lancia un grido di allarme: «Le gated communitiessono espressione di una patologia sociale: isole urbane cintate e video-sorvegliate, dotate di polizia privata, sorgono dalla volontà di auto-segregazione dei residenti a fronte di un intorno che percepiscono come minaccia. Molto dello spazio pubblico racchiuso in questi quartieri privilegiati si trasforma, di fatto, in privato. Così diventano zone extra-territoriali, normate da regolamenti interni, protette da una polizia privata. Sono frutto della paranoia che sviluppano i ricchi verso i poveri e vi sono segni che queste cittadelle, un tempo diffuse soprattutto nelle Americhe, stiano affermandosi anche in Europa, dove cresce l’avversione verso i nuovi immigrati. C’è chi erige muri ai confini, e chi li erige dentro le città. Il trionfo della logica del privato su quella dello spazio comune. Del desiderio di esclusione su quello di inclusione». Dove si trovano oggi queste cittadelle? «Dove maggiore è l’indice di disparità economica: in Sudafrica o Paesi quali Colombia o Brasile. Anche negli Usa la disparità sociale è relativamente alta e in Europa va crescendo. In Argentina ve ne sono diverse, tra le più recenti Nordelta presso Buenos Aires, con piscine, campi da golf e altre amenità. A San Paolo del Brasile vi sono alcuni quartieri chiusi chiamati Tamboré e numerati in progressione. In California il 40% dei nuovi edifici sono costruiti in gated communities e in tutti gli Usa si stima che almeno 11 milioni di persone vivano in cittadelle di quel genere. In Italia, l’Olgiata a Roma ha caratteristiche simili, ma vicino a Milano ne stanno sorgendo di nuove. Sono ambienti esclusivi, dove i prezzi possono essere anche del 20% superiori a quelli correnti di mercato e i costi di gestione sono ovviamente molto elevati. Ma c’è chi acquista immobili in queste zone perché ritiene che in futuro cresceranno di valore, a differenza delle altre aree, di cui si teme un degrado crescente». Siccome chi più ha, di solito meno desidera condividere, c’è chi le chiama “privatopie”: utopie privatistiche. Il nome fu coniato a metà degli anni ’90 da Evan McKenzie, studioso di scienze politiche all’Albright College di Reading (Pennsylvania) che osservò il sorgere di tante nuove città di questa natura, in particolare dagli anni ’80. In Usa ma anche in Colombia, Messico e altri Paesi sudamericani, specialmente ove il traffico di droga favorì il proliferare di piccola criminalità e il contemporaneo sorgere di grandi fortune economiche: anche chi ricava le proprie sostanze da attività criminali, vive là dove può garantirsi tutta la sicurezza che desidera. E di una vera e propria privatopia si parlò nel 2011, quando il parlamento honduregno approvò l’idea di rinunciare alla sovranità in una porzione di territorio per lasciarla in mano a investitori privati statunitensi, permettendo loro di realizzare una nuova città retta da leggi proprie e in regime di totale libertà fiscale (tranne una piccola tassa fissa da pagarsi allo Stato). Promotore dell’iniziativa era un gruppo di statunitensi tra i quali spiccavano alcuni giovani appassionati del libero mercato, come Michael Strong e Patri Friedman (nipote del guru del liberismo, Milton Friedman). L’idea era evidentemente ritagliata su quella delle special economy zones, zone di libero mercato che il governo cinese lanciò alla fine degli anni ’70: pur mantenendo un regime comunista, in alcune aree concesse libertà di impresa così da favorire gli investimenti stranieri. Fu il primo grande passo della Cina verso l’economia di mercato. Da 3 che erano nel ’79, tali zone speciali sono diventate una cinquantina negli anni successivi, e sono il motore dei rapporti economici internazionali. Ma la sovranità dello Stato cinese su quelle zone non è mai stata in discussione, a differenza di quanto previsto nel progetto di Privatopia promosso da Strong e Friedman. Questi proposero la loro idea prima al Mozambico, favoleggiando su prospettive di meravigliosi sviluppi economici con ricadute su tutto il territorio nazionale, ma senza successo. Anche in Honduras il progetto fallì, per l’opposizione della Corte costituzionale. Ripiegarono allora sull’idea di costruire città galleggianti in acque extraterritoriali: ci stanno ancora lavorando, perché vi sono difficoltà non piccole per costruire piattaforme galleggianti sufficientemente grandi e capaci di reggere le onde oceaniche. «Le gated communities si sviluppano là dove lo Stato è debole – sostiene Aimar –, ma spesso accade che tali comunità siano talmente costose che, se avviene una crisi, non riescano più a mantenersi. E allora debbano richiedere l’intervento della mano pubblica per garantire i servizi che si erano costruite su misura. E, alla lunga, si rivelano tutti progetti fallimentari: da che mondo è mondo, non vi sono muri che tengano quando la disparità sociale diviene eccessiva».
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