Gaetano Scirea e Giorgio Chiellini, così lontani, nel tempo, eppure così vicini, da sempre. E non solo per affinità bianconera, juventina, ma per una doppia corsia, niente affatto laterale che, in campo e fuori, hanno solcato (il secondo la solca ancora tutte le settimane) fino in fondo con i loro tacchetti: quella dell’umiltà. Da piccolo il “Chiello” non ha fatto in tempo neppure a memorizzare la classe e l’eleganza del “Gai”, morto in un incidente stradale in Polonia (a Babsk), il 3 settembre del 1989. Gai, la più bella «bandiera» della Juve di Trapattoni aveva 36 anni, “Re Giorgio” nobile baluardo difensivo di quella attuale, la squadra dei record di Antonio Conte, all’epoca appena cinque. Era di domenica, il giorno in cui, destino ancora più crudele, un calciatore non dovrebbe mai andarsene via per sempre, e invece di quella sera di fine estate Chiellini ricorda lo sgomento che regnava in famiglia davanti alla tv, con la “Domenica Sportiva” che annunciava la tragica notizia. Da allora, un vuoto di 25 anni, mai colmato, fino al tentativo di un abbraccio ideale che Chiellini - in tandem con Pierangelo Sapegno - ha voluto tentare, riuscendoci, in
C’è un angelo bianconero. Il mio maestro si chiama Scirea. Un maestro per tanti, Gaetano, figlio di famiglia operaia: socialismo e fede che si stringono la mano prima di ogni partita all’oratorio di Cernusco sul Naviglio dove era nato. Gai il maestro di Alessandro Del Piero che, a chi gli chiedeva come avrebbe voluto essere ricordato dai tifosi juventini, rispondeva: «Vorrei che mi vedessero come io vedevo Scirea. Parlo dell’uomo, non solo dello straordinario giocatore. Perché questo per me vuol dire entrare nel cuore della gente, lasciare qualcosa che vada oltre i numeri». Il suo numero di riconoscimento, stampato anche nel retro del libro, era il “6”. «I tifosi sono venuti da me e mi hanno proposto quella maglia, la numero 6... Ma io ho sempre avuto il 3 da quando sono arrivato qui: prima di me ce l’aveva Alessio Tacchinardi, un altro che ha segnato un’epoca di questa squadra». Aperta parentesi storica: prima ancora di Tacchinardi, il vero n. 3 che ha segnato un’epoca in quella Juve trapattoniana, è stato Antonio Cabrini. Uno dei tanti tribuni tra gli 11 di una formazione pluridecorata in Italia e in Europa, dove, per abbondanza di campioni, il ct della Nazionale Cesare Prandelli veniva relegato in panchina, con la maglia numero 13 o 14. Un calcio che appartiene al secolo scorso, mentre l’eterno Trapattoni quando ripensa al suo Scirea dice commosso: «Gaetano era un leader con il saio». Ed è a quel tipo di leadership civile e pacifico che, con grinta fumantina, da pisano cresciuto a Livorno, aspira Chiellini. Uno che inseguendo Scirea più degli otto scudetti vinti con la Juve e di tutte le Coppe, compresa quella del Mundial di Spagna ’82, si ritrova ancora sulla fascia della saggezza e della coerenza. «Molti di noi trattano con presunzione e superficialità gli altri. Non so se lo faccio anche io. Però cerco con tutte le forze di non farlo – scrive Chiellini –. Scirea andava agli allenamenti in tram. Oggi forse sarebbe impensabile. Abbiamo tutti la macchina, l’iPad, l’iPhone, l’abbonamento a Sky. Adesso si passa il tempo alla playstation o al computer... Non riusciremmo a vivere senza. E poi, con tutti i canali televisivi che ci sono, con tutti i programmi che fanno, non riusciremmo nemmeno a nasconderci». Generazioni a confronto, in un mondo come quello del pallone che, come tutto il resto, è profondamente cambiato. «I suoceri di Scirea – continua Chiellini – gli avevano regalato una Bmw 530 e lui la teneva in garage. Mi hanno detto che Gaetano restituì le chiavi perché disse: “La Juventus è Fiat”.... Noi ci siamo nati con i macchinoni, loro hanno dovuto abituarsi». Pochi, invece, dell’ultima leva calcistica sono abituati a leggere come Chiellini e ancor più rari sono quelli nati con il desiderio di conciliare lo studio con la professione del pallone. «Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione», scrive il filosofo Norberto Bobbio: e questo era il titolo del tema all’esame di maturità, del “ragionier” Scirea che considerava “il pezzo di carta” la più importante delle mete conquistate quando era già all’apice della carriera. Un premio per sé e un segno di riconoscenza nei confronti dei genitori e, quindi, verso quella classe operaia che «lo commuoveva». Chiellini ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia “borghese” («papà Fabio è un chirurgo ortopedico e mamma Lucia è una manager che dovunque va fa carriera»), però, come Scirea, non ha rinunciato all’impresa: concludere gli studi nonostante la prateria aperta e privilegiata del campione affermato. «Ho preso 109 in Economia e sto cercando di andare avanti, prossimo obiettivo: laurea magistrale nel 2016». Ruvido in campo, quanto delicato e attento fuori, il Chiello, dopo il suo Riccardo è diventato uno dei “figli prediletti” di Mariella Scirea, alla quale all’indomani della morte del marito un pastore sardo inviò una lettera in cui scriveva: «Mi bastava guardarti (Gaetano), perché quando vedevo il tuo sguardo, pensavo che saresti stato il figlio che avrei voluto avere». Era un figlio anche per il “Vecio” Enzo Bearzot che lo salutò alla sua maniera, con poche parole, ma che dicono tutto: «Era un angelo piovuto dal cielo, ecco cos’era Gaetano... Ma l’hanno rivoluto indietro troppo presto». Il libro di Chiellini, riesce a restituirci almeno un frammento di memoria viva dell’angelo e del maestro Scirea, che può essere utile ed esemplare per i suoi colleghi dell’eldorado pallonaro, ma anche a tutti noi, ai quali il Giorgio nazionale si congeda dicendo: «La vita non ti regala niente. Abbiamo le porte spalancate, ma il rapporto con la gente va costruito sempre. Io sono convinto che tutte le persone con cui avrò a che fare mi daranno comunque qualcosa, mi saranno di aiuto. Parecchie di queste cose le ho imparate sentendo raccontare Scirea. La disponibilità verso gli altri, l’umiltà».
Giorgio Chiellini - Pierangelo SapegnoC’è un angelo bianconero - Il mio maestro si chiama ScireaMondadori. Pagine 128. Euro 16,00.