La pazzia di Chisciotte è – riconosce lo stesso paladino – così grande che, non avendo più misura, lo esenterà anche dall’averne coscienza; così a Sancho: «Pazzo sono e pazzo ho da essere fino a tanto che tu non torni con la risposta a una lettera che ho in mente di mandare, per tuo mezzo, alla mia signora Dulcinea. Che se la risposta sarà quale si deve alla mia fedeltà, finirà la mia pazzia e la mia penitenza; se poi sarà al contrario, sarò matto davvero, e una volta pazzo, non proverò più nessun dolore» (I, 25), tanto che egli stesso sceglie – nella pazzia – di voler essere più Orlando che Amadigi. A ciò Sancho risponde con la “realtà effettuale” e cioè, per esempio, «una catinella da barbiere» non essere affatto «l’elmo di Mambrino»; ma anche a questo il Cavaliere dalla Triste Figura sa rispondere, poiché solo chi ha vista grossa vede una catinella là ove invece in essenza c’è l’elmo di Mambrino.Certo gli episodi del Quijote sono divenuti tutti emblemi di un “mirabile popolare” (dai mulini a vento alla barca incantata): basterebbe pensare al ciclo di pannelli che, già a metà Seicento, Jean Mosnier eseguì nel castello di Cheverny; ma alcuni di essi debbono tanto alla tradizione dei cantari quanto all’“incatenamento logico” del sillogismo, come nel celebre episodio notturno del capitolo XVI: «E qua, come suol dirsi, il gatto al topo, il topo al gatto, ed il gatto alla corda, e la corda al palo: il vetturale bastonava Sancio, Sancio la serva, la serva lui, l’oste la serva, e tutti menavano così alla presta che non restava un momento di pausa».
In tale gioco prospettico, Cervantes non solo dispone in scena con garbo ironico la indecidibilità dei punti di vista, ma mette a distanza anche il suo stesso romanzo (la Prima parte esce nel 1605), pubblicandone una seconda parte (nel 1615), in un replicarsi di specchi deformanti che è parodia e malinconia insieme. Come in Montaigne, il libro e la vita sono un solo viluppo: «Soltanto per me venne al mondo [conchiude Cide Hamete] don Chisciotte ed io soltanto per lui. Egli seppe operare ed io scrivere; tutti e due insieme, facciamo uno solo» (II,74, explicit). Come in Shakespeare, Don Chisciotte recita la parte che la sua fama ironicamente gli dispone intorno (I, 29 e II, 41): «e se il valore del vostro braccio corrisponde al clamore dell’immortale vostra fama, siete obbligato a dare assistenza a questa sfortunata che da tanto lontani paesi viene all’odore del vostro celebrato nome, cercando rimedio alle sue disavventure» (I, 29). Egli diventa quel che è nei libri di cavalleria che l’hanno modellato; la sua totale “trasparenza” è quella stessa del Licenciado Vidriera, personaggio delle Novelle esemplari (1613) che per incantesimo pensa di essere tutto di vetro e tutto teme; Don Chisciotte, tutto di libri, nulla teme. È il puro, il povero, il pazzo, il faqir, l’«uomo di pena» che Ungaretti evocherà nel Povero nella città (1949) e che già Dostoevskij, nei quaderni preparatori dell’Idiota, identifica nel «cavaliere povero», emblema dell’amor puro, totalmente «innocente», figura Christi. La fortuna del Chisciotte è stata immensa, già dalla finzione del manoscritto, ritrovato, di Cide Hamet Bene-Engeli che passerà diretta nei Promessi Sposi. Anche il Novecento vive della temeraria solitudine del cavaliere di Cervantes, sino al Don Chisciotte di Bulgakov (1938). In fondo, il suo, è il più bell’elogio di quel dover essere che la lettura modella in noi: «Legga di questi libri e vedrà come […] le fanno migliore il carattere. Per parte mia, le so dire che da quando sono cavaliere errante sono valoroso, garbato, liberale, magnanimo, cortese, mite paziente, tollerante di fatiche, di prigionie, d’incantagioni» (I, 50). Sì, «ha aperto nuovi cammini, unicamente perché aveva il coraggio di avanzare senza domandarsi se altri lo seguisse […]; poiché aveva una fede che rinunciava alle conferme» (Dag Hammarskjöld).