sabato 16 ottobre 2021
La coreografa debutta a Torino e affascina. In “La nuova abitudine” i ballerini danzano sugli inni interpretati da un coro di rara musica liturgica ortodossa. «La mia ricerca della purezza»
La coreografa Claudia Castellucci

La coreografa Claudia Castellucci - Pierre Planchenaut

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Una processione di danzatori e cantori abbigliati con candidi abiti asimmetrici sale in silenzio sul palco spoglio del Teatro Astra di Torino. D’improvviso un coro di quattro voci maschili, in una lingua antichissima, intona lodi a Cristo dalla dolcezza inedita, mentre sei ballerini e ballerine trasformano le melodie in gesti asciutti ed essenziali seguendone rigorosamente il ritmo. Cinquantacinque minuti di raffinata intensità, capaci di far perdere le coordinate spazio temporali, quelli messi in scena dalla coreografa Claudia Castellucci, Leone d’Argento alla Biennale Danza 2020, che ha debuttato venerdì in prima assoluta con il suo nuovo lavoro, La nuova abitudine, inaugurando Festival delle Colline Torinesi, che propone un ricco cartellone di danza e prosa sino al 14 novembre. Un lavoro ispirato ai canti ortodossi della tradizione Znamenny nato a San Pietroburgo dove la Castellucci, instancabile studiosa, autrice e docente, ha fatto incontrare la sua Compagnia Mòra con i Cantori del Coro di musicAeterna, diretti dal musicista Teodor Currentzis. Lo spettacolo è prodotto da Societas, fondata dal 1981 insieme al fratello Romeo Castellucci, in co-produzione con musicAeterna di San Pietroburgo e Teatro Piemonte Europa / Festival delle colline Torinesi. Sarà poi all’Auditorium Parco della Musica di Roma per RomaeuropaFestival il 13 e 14 novembre.

Claudia Castellucci, come è arrivata a mettere in danza questi inni antichissimi?

«La nostra arte coreografica, basata sul movimento ritmico, avvicina il canto Znamenny, un antico canto liturgico ortodosso del XVI secolo, di impronta greca, che si fonde con la tradizione rurale della musica russa. La danza segue pedissequamente questi canti in slavonico, il russo ecclesiastico antico. Comunque la loro forma, al di là delle parole, rapisce. Questi canti appartengono a una tradizione minoritaria della tradizione liturgica russa che io già conoscevo. Io ho un rapporto con la Russia di affetto e di frequentazione della sua letteratura, della sua filosofia e anche della sua teologia. In modo particolare ritengo un mio insegnante padre Pavel Florenskji, teologo e teorico dell’arte morto in un gulag, al quale ricorro molto spesso attraverso i suoi scritti».

Come si riverberano le sue teorie nella sua danza?

«Io ho seguito il suo insegnamento per quanto riguarda l’approfondimento della dimensione temporale che è la dimensione che io privilegio nella danza, rispetto a quella spaziale: perché per me la danza è ritmo, una metamorfosi del tempo, è un modo di vivere il tempo che immediatamente si realizza nel suo cambiamento. Mi sono imbattuta in questi canti che sono diversi da quelli noti della pompa, dello sfarzo di origine bizantina. Questi sono sempre liturgici ma conservano una semplicità della forma, non certo della esecuzione visto che sono molti difficili, che trae la propria linfa dalla tradizione rurale russa. Sono di una grandissima dolcezza, che proviene dalla terra, dallo stupore delle fioriture delle stagioni, dal lavoro dei campi che si fonde con la spiritualità. Una spiritualità che ha come scopo un restituzione del senso delle cose più semplici più che uno sfarzo da esibire, seppure in onore di Dio».

Una scena de “La nuova abitudine” di Claudia Castellucci al Teatro Astra di Torino

Una scena de “La nuova abitudine” di Claudia Castellucci al Teatro Astra di Torino - Andrea Macchia

Come si trasforma in coreografia?

«Utilizziamo la tecnica di una danza intuitiva con una assimilazione che vuole mantenersi spettatrice, con discrezione e riguardo. Una nuova “abitudine”, un abito nuovo. Cambiare posto, andare in altri spazi, è questa anche l’ottica di un’atmosfera metafisica che orienta ora la nostra danza».

Usare la musica liturgica come base per la danza ha comportato dei rischi?

«Mi sono posta la domanda: se una compagnia non appartenente alla tradizione occidentale si mettesse a danzare il canto gregoriano come mi comporterei? Avrei molti problemi. Abbiamo riguardo di una musica che è entrata a far parte della vita concreta delle persone al punto da farsi liturgia. Soprattutto lo abbiamo nell’utilizzare questa musica come base di una danza. Onestamente ho distinto le cose, ho avuto riguardo verso questa forma musicale nella consapevolezza che è improprio l’uso, perché l’uso è liturgico e il mio non lo è. Il mio è estetico, legato alla danza, un oggetto di studio, di esercizio, di interrogazione. Cerco di entrare in una forma, non per imitare la liturgia, ma umanamente parlando per cogliere questa forma musicale nella sua purezza e cercare di interpretarla senza un altro fine. Bisogna stare molto attenti a non millantare questa capacità che appartiene soltanto alla liturgia di rendere efficace la rappresentazione, perché il suo scopo è la salvezza. L’arte non è efficace perché rimane sul versante della rappresentazione».

Rigore è il marchio di fabbrica che si riconosce alle sue coreografie.

«Il rigore é un modo di essere liberi. Per far sì che il fatto artistico diventi massimamente trasparente, questo vuol dire sottoporsi a uno schema, che significa ordine, che proviene da una decisione personale e intima. Lo schema della danza è un tutt’uno con la parola ritmo, nell’antica Grecia erano sinonimi. La danza è una visione del mondo che lo orienta e che propone un ordine. In questo senso il rigore libera se l’arte grande».

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