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Qualche anno fa, nel mio studio di Londra, discutevo con un amico pittore, un bravissimo astrattista svizzero tedesco naturalizzato londinese, su un argomento che era tema quotidiano dati i costi degli studi nelle aree dell’East End. Pierre aveva trovato un appartamento accessibile a Lewisham, area di Londra semi periferica comunque ben servita dalla DLR (Docklands Light Railway), metropolitana di superficie che attraversa l’area finanziaria di Canary Wharf, già allora un luogo che sembrava proiettarti direttamente nel futuro. La sua idea era di avere lo studio in casa, per risparmiare affitti e anche viaggi. Fai la colazione e poi entri tra le braccia delle muse e produci arte. Io, che vengo da una tradizione di marinai da generazioni, sulle prime sono rimasto perplesso, come rimango sempre perplesso di fronte alla stolida dittatura che sembrano imporre tutti i ragionamenti dominati dal buon senso. Poi ho focalizzato il mio pensiero. Finchè esistiamo su questa terra, ma spero anche dopo, perseguire la unità perfetta non è solo una inutile utopia, ma è anche un presidio della morte interiore.
Casa-lavoro è il binomio perfetto per soccombere alla resa della inquietudine e alla sua esternazione. Le ciabatte all’anima, per quanto comode, non si possono mettere, certamente non alla mia. Il viaggio non è solo spostamento, ma anche salutare esternazione di una necessità interiore, il gesto con cui sublimare il nostro ineludibile e profondo bisogno di muoverci, dentro e fuori. È impossibile e illusorio pensare di poter tenere tutto insieme nello stesso posto. È, in definitiva, la fine della giusta ambizione che abbiamo verso il nuovo, il rinnovamento, la contaminazione con l’altro, con i territori, con il fastidio, con la diversità. Per quanto impegnativo sia il viaggio, la sua costante iterazione fa parte del nostro essere umani, negazione intrinseca di ogni forma di stasi perenne.
Al mio amico Pierre ho semplicemente detto che, dal mio punto di vista, essere artisti (e intendevo uomini) significa anche percorrere costantentemente e con fatica le fasi di separazione e riunione. I luoghi differenti sono necessità del rito fisico che apre alla dimensione del viaggio, che riassume la nostra vitalità in un unico gesto. In definitiva, casa e studio non possono coincidere. Perché stati di esistenza differenti, il percorso tra i quali è propedeutico allo smantellamento delle certezze per farsi tavola bianca ogni volta, su cui scrivere storie nuove.
Oggi la pandemia ha attivato un dibattito sul lavoro da casa, sulla necessità di ricavare un luogo da cui relazionarsi con il mondo e il lavoro in forma virtuale. Qualcuno sogna gli ologrammi, nella realtà è difficile avere connessioni che permettano un sincrono fluido di voce e immagine. Il discorso non cambia comunque. Che questa possa essere una necessità temporanea, è fuori di dubbio. Che possa essere di grande utilità in periodi definiti di emergenza è altrettanto certo. Ma non è lecito contrabbandare questa soluzione per toccasana permanente e auspicabile. Un obiettivo da raggiungere. A meno di non voler tentare la metamorfosi della società in un formicaio produttivo indistinto, inconsapevole e acquiescente, delimitato dalle proprie quattro mura e una connessione il più delle volte primitiva, privato del diritto–necessità essenziale del viaggio, dello spostamento, che, con tutti i suoi fastidi, è comunque un antidoto alla anestesia della illusione di una permanenza e unità profondamente inconciliabili con la nostra stessa essenza: il cammino.
Il Covid-19 è una calamità, è una grande prova, ma non è la nuova religione con i suoi nuovi sacerdoti, grazie alla quale si può pensare di agevolare la trasformazione degli esseri umani in compartimenti contingentati, controllati, separati e, se si spinge nella direzione di agevolare il totale isolamento, definitivamente atrofizzati.