Il carbone resterà per almeno un secolo un cardine energetico nel mondo? Oppure il suo uso dovrà diminuire di molto nei prossimi decenni? Differenti valutazioni dei suoi costi monetari, sociali e ambientali portano a giudizi opposti. Tra coloro che vogliono migliorare il bilancio finanziario delle fonti di energia alcuni vogliono più carbone, mentre chi vuole migliorare i bilanci sociali e ambientali ne preconizza un rapido abbandono.È al carbone che si deve la rivoluzione industriale che fece esplodere i consumi materiali, specialmente nei Paesi industrializzati. Con esso si producono un quarto dell’energia commerciale primaria mondiale, due terzi dell’acciaio e il 40% dell’elettricità; in Usa e in Germania il 50%, in Cina il 70% e in Australia l’80%. Quasi due terzi del carbone vanno al settore elettrico e un terzo a quello industriale. Da alcuni anni la sua produzione di cresce più di quelle di gas e petrolio e alcuni prevedono un aumento del 50% entro il 2030. Il carbone è distribuito nel sottosuolo di molte regioni del pianeta, è spesso facile da estrarre e costa meno denaro degli altri combustibili fossili. Alcune stime valutano a 900 miliardi di tonnellate le riserve, abbastanza per un consumo annuo ai livelli attuali, 6 miliardi di tonnellate, per almeno un secolo e mezzo. Secondo altri le riserve sarebbero inferiori. Per questo ma soprattutto per motivi sociali e ambientali, secondo il
think tank «Energywatchgroup» entro il 2020-2030 il «picco del carbone» potrebbe accompagnare il «picco del petrolio», cioè il momento in cui la sua produzione mondiale comincerà a diminuire (vedi sul sito
www.energywatchgroup.org). L’eventuale abbandono del carbone dipenderà dalla considerazione dei suoi costi reali, non solo di quelli monetari. La differenza tra costi reali e prezzi riguarda tutte le merci, non solo il carbone. Nel commercio, accanto all’utilità per chi vende e chi compra, si generano effetti su terzi, causati dalla produzione, l’uso o lo smaltimento di una merce. Se questi effetti sono dannosi, le merci sono «beni» per chi le commercia, ma «mali» per molti altri. Alcuni economisti li chiamarono «costi esterni» (A.C. Pigou, 1932) o «costi sociali» (K.W. Kapp, 1950) della produzione. Anche se sono trascurati nelle contabilità nazionali, i costi esterni di molte merci sono elevati e spiegano perché nei Paesi ricchi il Pil cresce, ma il benessere diminuisce.Nel 2008 il centro studi olandese «Ce Delft» stimò che i costi esterni del carbone nel mondo ammonterebbero ad almeno 360 miliardi di euro, a confronto dei 300 miliardi di euro di carbone commerciato. Ogni euro di carbone causerebbe un po’ più di un euro di costi esterni, cioè di danni alla salute e all’ambiente. Il 99% dei costi sarebbe dovuto ai gas di combustione. I costi reali, in realtà, sono più alti perché lo studio non ha potuto tener conto di un decimo del carbone mondiale e di molti effetti sociali e ambientali difficili da quantificare. Per esempio, le centrali a carbone sono la principale singola fonte di dispersione atmosferica del mercurio, un metallo tossico che si accumula nei mari e negli organismi marini; altri metalli pesanti e sostanze radioattive fanno parte delle emissioni e sono difficili o impossibili da filtrare. I costi umani inoltre sono ingenti e concentrati soprattutto nei Paesi estrattori più poveri, dove la salute, i suoli e le risorse idriche di milioni di persone vengono compromessi dall’estrazione del carbone.Il danno maggiore del carbone è quello più difficile da quantificare: il suo effetto sul clima. La combustione del carbone causa le più alte emissioni di CO2: circa 760-1000 grammi per ogni kWh elettrico, contro i circa 370 grammi di una moderna centrale a gas. Già nel 1896 il premio Nobel Svante Arrhenius calcolò, con notevole precisione per l’epoca, che l’aumento della CO2 nell’atmosfera dovuto alla combustione del carbone e delle foreste avrebbe causato un aumento dell’effetto serra naturale e un aumento della temperatura alla superficie terrestre. Oggi la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è superiore del 40% a quella di 200 anni fa ed è ai livelli più alti degli ultimi 700.000 anni. Questo rapido aumento è attribuito alle attività umane di combustione dei carburanti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) e delle foreste. Secondo la maggioranza dei climatologi, queste combustioni sono la principale causa dell’aumento della temperatura media alla superficie terrestre constatato nell’ultimo secolo e dell’aumento ancora più rapido previsto nei prossimi decenni. Tra i molti che hanno cercato di valutare in denaro i costi ambientali dei probabili cambiamenti climatici dovuti alle attività umane, il più autorevole è sir Nicholas Stern, già capo economista della Banca mondiale. Secondo il «Rapporto Stern» del 2006, la continuazione dell’attuale ritmo di crescita delle emissioni di CO2 e di altri gas a effetto serra potrebbe tanto alterare il clima da portare in alcuni decenni a una diminuzione del 10 o 20% del prodotto economico mondiale. Secondo Stern, questo danno potrebbe essere evitato investendo ogni anno l’1 o 2% del prodotto economico mondiale in iniziative e tecnologie che permettano una forte riduzione delle emissioni di gas di serra. La parola chiave di questa strategia è «decarbonizzazione» dell’economia mondiale, cioè riduzione dell’uso di tutti i combustibili che emettono carbonio nell’atmosfera: principalmente il carbone, ma anche petrolio e gas.Proprio di recente è stato pubblicato il rapporto «Energy (R)evolution 2010», redatto da trenta scienziati e ingegneri dell’Istituto di termodinamica tecnica del Centro Tedesco Aerospaziale (DLR) e di università e aziende energetiche di altri Paesi. Secondo costoro, entro il 2050 le quote mondiali possibili sono del 95% di energie rinnovabili (cioè solari, eoliche, idroelettriche, geotermiche) per l’energia elettrica, del 91% di energie rinnovabili per l’energia termica e dell’80% per la riduzione delle emissioni di CO2; l’uso del carbone andrebbe quasi abbandonato nei prossimi decenni e la vita media delle centrali a carbone accorciata da 40 a 20 anni. Svezia e Islanda programmano prima del 2050 un abbandono di gran parte dei combustibili fossili; la Gran Bretagna ha deciso una riduzione delle emissioni di CO2 dell’80% entro il 2050. La Svizzera dal canto suo persegue l’obiettivo di una «società a 2000 watt», cioè di ridurre l’uso nazionale di energia primaria dagli attuali 7000 a 2000 watt pro capite, riportandolo al livello svizzero degli anni ’60, che è il valore medio attuale per la popolazione mondiale. Questa strategia, promossa dallo Stato e dalla fondazione «Novatlantis», è stata sviluppata nel 1998 dal Consiglio dei Politecnici federali svizzeri e adottata nel 2002 dal governo federale di Berna, dalle principali istituzioni scientifiche e tecnologiche, da decine di governi comunali e cantonali nonchè numerose aziende, pubbliche e private.