La rupe di Orrico, a Capri, dove morì la poetessa Pamela Reynolds
Quando, nel 1937, Carlo Carrà approda a Capri per una gita da Sorrento, l’impressione che ne riceve non è entusiastica. Così scrive in quel libro imprescindibile che è La mia vita (1943): «questa località è fatta troppo per il turista, accentuando così un elemento folcloristico che ne dà una visione falsa e del tutto artificiale». La bellezza del luogo, lo capisce subito, sta infatti altrove, lontano da quei riti dell’incipiente società di massa, in quelle parti «più selvagge e meno conosciute» in una delle quali dipinse Monte Solaro a Capri: ove ci viene restituita - così come sembra apparire agli ipotetici pescatori delle tre barche a vela - un’isola ostile e dai colori ferrosi, inaccessibile per gli aspri promontori rocciosi, destinata a diventare ancora più inospitale, battuta dal vento e dalla pioggia, durante i freddi e disagevoli inverni. Soltanto due anni prima, il 27 maggio 1935, pare precipitando da una rupe analoga, quella di Orrico, lungo il sentiero che collega la celeberrima Grotta Azzurra con Punta Carena, aveva trovato la morte una poetessa inglese di vent’anni, Pamela Reynolds, già orfana di madre, che viveva sull’isola con la famiglia dal 1922, per via dei problemi polmonari della genitrice: una morte, quella di Pamela, che fu frettolosamente rubricata come suicidio.
A riaprire il caso, e a sollevare nuovi dubbi, arriva ora Antonio Corbisiero, che pubblica per un piccolo editore, Il Grappolo di Mercato San Severino, Il mistero di Pamela Reynolds, con un’introduzione di Patrizia Rinaldi e una postfazione di Francesco D’Episcopo. Si tratta d’una storia che ci fa ritornare a quell’Italia fascista che è la stessa in cui, in circostanze misteriose (il 14 luglio del 1933 nella camera 224 del Grand Hôtel et des Palmes di Palermo), perse la vita, ucciso da un’overdose di barbiturici, lo scrittore francese Raymond Roussel: su cui Sciascia, per nulla convinto della tesi ufficiale del decesso, imbastì un delizioso giallo pubblicato nel 1971 col titolo, appunto, di Atti relativi alla morte di Raymond Roussel. Corbisiero se lo domanda: fu, quello di Pamela Reynolds, suicidio o, più amaramente, istigazione al suicidio, incidente o, addirittura, omicidio? Intanto una veloce digressione.
Filippo Tommaso Marinetti, nel 1928, aveva scritto il suo elogio di 'Capri Capricciosa', definendola, con quel suo odioso sperpero di maiuscole, «L’Indisciplinata», a causa, appunto, di quelle «cento scogliere a picco strapiombanti », naturalmente candidate a fungere da «privilegiate terrazze per eleganti suicidi». Di suicidi anche illustri, in effetti, a Capri (o a causa di vicende capresi) ce ne sarebbero stati molti. Mi limito a ricordare quelli di cui scrive Raffaele La Capria nel suo bellissimo Capri e non più Capri (1991): il miliardario tedesco Friedrich Alfred Krupp, imperatore delle omonime acciaierie e 're dei cannoni', coinvolto in un clamoroso e forse pretestuoso scandalo, per cui fu oggetto dei ferocissimi attacchi di Matilde Serao; l’estetizzante e chiacchieratissimo barone francese Adelswärd Fersen, ma alquanto mediocre come poeta; il grande scrittore britannico Norman Douglas, autore di uno dei libri più singolari del Novecento, La terra delle sirene (1911). Ma torniamo a Pamela Reynolds. Corbisiero, per provare a venire a capo del suo enigma, si muove lungo tre direttrici: la storia della famiglia di Pamela, il cui padre, in gioventù, fu segretario della Fabian Society, nonché amico di Bernard Shaw e Oscar Wilde, mentre nella casa di Villa Monticello ('la piccola Oxford', come veniva chiamata) riceveva le visite di personaggi quali D. H. Lawrence; la breve, ma toccante, esperienza di poetessa di Pamela, le cui ultime liriche sono state di recente ritrovate insieme ad alcune 'brevi lettere' e che, secondo una leggenda non solo familiare, fu capace, a soli 13 anni, di sostenere «un lungo contraddittorio filosofico » con Benedetto Croce; il di lei rapporto con lo scrittore Edwin Cerio, che la frequentò già sessantenne.
Corbisiero non manca di sottolineare «l’inquietante modernità » dei temi trattati dalla giovanissima Pamela, che saranno cibo ordinario per la gioventù soltanto a partire dagli anni ’60: la fuga dalla realtà, il disagio per il proprio corpo tra anoressia e bulimia, persino certi aneliti di liberazione. Questa, insomma, è la ragazza che, pochi mesi prima di morire, manda a Cerio sei poesie, ricevendone in cambio «un magnifico fascio di orchidee con un biglietto di plauso e di incoraggiamento». Cerio - scrittore, ma pure botanico, architetto, ingegnere navale, zoologo, paleontologo, collezionista d’antichità e uomo d’affari - amatissimo dai capresi di cui fu sindaco, anche per aver fatto diventare l’isola, spiega ancora La Capria «una visione del mondo, una metafisica, una ossessione personale che si trasforma in una deformazione professionale ».
Uno scrittore sopra le righe, sovrabbondante, pletorico, come del resto dimostra quanto scrisse della morte di Pamela in uno dei suoi libri più noti, L’ora di Capri (1950): «Il destino urgeva. Ecco la giovinetta ritta sulla scogliera a picco, l’esile figura aureolata di sole, disegnata contro il firmamento di cui gli occhi nordici avevano bevuto tutta la luce». E ancora: «È affacciata alla vita (…) ed eccola, un istante dopo, in fondo al precipizio». Corbisiero non elude l’interrogativo decisivo: «Si era invaghito di Pamela? La corteggiava? ». Ed è anche convinto che la risposta l’abbia portata con sé per sempre nella tomba, a 90 anni, Ermione, una delle due sorelle di Pamela (l’altra, Diana, era morta pochi mesi prima della disgrazia per un parto difficile), la quale pare fosse con lei in quel fatidico giorno. Si è persino favoleggiato d’un diario della giovane poetessa, mai più ritrovato. Pamela giace ora nel cimitero acattolico di Capri accanto al padre: dove dormono, tra gli altri, Norman Douglas, Thomas Spencer e Gianni Amelio. La Procura di Napoli, c’informa Corbisiero, ha riaperto l’inchiesta.