«Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando? ». Sono le domande che Vinicio Capossela, il viandante-narratore, pone all’umanità varia che incontra nel suo “onirico” passaggio
Nel paese dei coppoloni. Titolo del film omonimo (in uscita nelle sale il 19 gennaio), trasposizione cinematografica della sua ultima opera narrativa
Il paese dei coppoloni (Feltrinelli). Il paese è quello delle «radici » di Capossela, nato in Germania, ad Hannover nel 1965, ma figlio di emigranti di Calitri, borgo abbarbicato sulle dorsali appenniniche dell’Irpinia, dove in estate organizza lo “Sponz Fest”. Un festival che è un po’ il manifesto dell’antropologia demartiniana di Capossela che va a caccia di magie più che di un Sud. «Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria a cui l’immagine e il cuore tornino sempre di nuovo». Così scriveva Ernesto De Martino, indicando la via maestra al viandante-cantautore perennemente alla ricerca di un universo popolato di musica, canti, leggende e bestiari in un viaggio che fondamentalmente è la “ricerca del tempo perduto”, prima che del Paese dei padri che non c’è più. Un Paese in cui i “coppoloni” che si coprivano per difendersi dal freddo lassù nel loro olimpo, ora devono guardarsi dalle trasformazioni perniciose dettate dal regime totalitario di quelli che il poeta cantore denuncia come i danni dei «flussi economici». Un’economia che non tiene conto della tradizione, della cultura millenaria e che riduce tutta «l’Italia interna a discarica», a parcheggio di quell’energia alternativa rappresentata dalle pale eoliche disseminate come parabole sui tetti per le colline del Belpaese svilito, abbandonato. Un abbandono che non è solo la conseguenza dello spopolamento per via dei flussi migratori verso quel «Polo dove sono finiti i coppoloni». «Tutti noi siamo prima di tutto degli emigranti dal tempo – avverte Capossela –. Tornare da dove si è partiti per tentare di sottrarsi alla temporalità: avere tempo, trovare il tempo, mettersi a disposizione del tempo, per ritrovare i
siensi perduti». Questo è il messaggio fondante del film, forse non pienamente riuscito anche per via di una regia un po’ fragile di Stefano Obino il quale a sua scusante ha ricevuto l’onere non indifferente di gestire la teatralità debordante e non sempre originale (quanto la sua storia discografica) di Capossela. Un film,
Nel paese dei coppoloni, che comunque a tratti ricorda per immagini e suggestioni la poetica del cinema naturalista di Franco Piavoli. Il poeta Vinicio si aggira bucolico per vicoli deserti, fuori e dentro il borgo «postremante» (memorie del sisma dell’Irpinia) indossando ora i panni del Tolstoj in maschera, ora del guitto che sogna da sempre di realizzare nel ventre del paese un «West calitrano». Il ritmo è scandito da una colonna sonora in cui, tra l’ossessivo «Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando? », finalmente si riascolta la voce e la creatività musicale di Capossela, inframezzata dalle melanconiche sonorità della mitica Banda della Posta, i suggestivi canti popolari – quelli delle «Mammenonne», regine del matriarcato meridionale – che avrebbero ingolosito l’etnomusicologo texano Alain Lomax. Capossela insegue i suoi spettri che nel bosco «appaiono a una sola persona alla volta, così che nessuno può essere davvero certo della loro esistenza». Ciò che esiste davvero e che lacera la sensibilità del viandante sono i segni del passaggio dell’uomo e della sua fatica prestata ai campi e alle linee ferroviarie, dove i treni non passano più. «Qui passava il treno che univa i cristiani più dell’alfabeto», dice un nostalgico Vinicio camminando sulle rotaie mentre scorrono immagini d’epoca degli operai che costruirono l’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, inaugurata nel 1895 con la benedizione dell’intellighenzia locale, da Giustino Fortunato a Francesco De Sanctis. «Viviamo in un tempo in cui non si fanno sposalizi – si sono trasformati in matrimoni – e non si miete più il grano», è il grido di dolore che Capossela lancia dall’alto della sua scenica “trebbiatrice volante”. Memorie di riti e di luoghi che la memoria «non conosce come il greco
Rebetiko, ma ri-conosce». Riconoscimento di un’Heimat, «quella forma materna di mondo perduto che è poi l’infanzia di ciascuno di noi e che alberga nel mito e si può rintracciare solo nel racconto». Un bel racconto quello di Capossela, umanamente partecipato e tarantolato al punto giusto come l’esecuzione live deIl
ballo di San Vito, anche se il personaggio artisticamente più riuscito è quello che svela alla fine della proiezione del film. ÈIl
pumminale (il licantropo che con la luna piena diventa «un porco-maiale»), brano inserito nel suo prossimo album
Le canzoni della Cùpaimpreziosito dalle immagini di Lech Kowalski. Il filmaker del punk rock firma il video girato in quel paese dei coppoloni dove appena arrivato la sua anima emigrante ha sussurrato al viandante-narratore: «Qui sento che è come se ritrovassi le mie radici polacche».