giovedì 27 ottobre 2016
Dai pionieri Guccini e Vecchioni fino al recente esordio di Pacifico, sono molti i cantautori a passare dalla canzone al romanzo
Il cantautore e scrittore Francesco Guccini

Il cantautore e scrittore Francesco Guccini

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Avere qualcosa da raccontare. Oppure dover raccontare qualcosa, più che altro per ricordare al pubblico di esistere ancora artisticamente. In assenza di nuove idee musicali da far ascoltare, in molti casi ai cantautori restano nella penna soltanto le parole. È il problematico crocevia che spesso si trovano davanti molti artisti pop, soprattutto in tempi bui in cui i dischi non si vendono quasi più e le canzoni si bruciano in fretta, alla insensata velocità senza meta di questi ipertecnologici anni.

Musicisti che diventano così scrittori, autori di libri. Non è certamente il caso di Bob Dylan, il letterato menestrello di Duluth in questi giorni inseguito, ma anche malamente apostrofato, dagli accademici “nipotini” di Alfred Nobel per quel premio che loro vogliono dargli, ma che lui pare non voglia considerare e, salvo colpi di scena il prossimo 10 dicembre a Stoccolma, men che meno ritirare. A Mr.Tambourine Man sono in ogni caso bastati i testi delle sue canzoni per fare letteratura.

Ma per una folta schiera di musicisti e cantautori la forma canzone, a un certo punto della loro vita e carriera, ha visto cedere il passo e inchinarsi alla mitologia del libro. Nel panorama di casa nostra all’inizio sono stati alcuni dei più colti e politicamente impegnati cantautori, come Francesco Guccini e Roberto Vecchioni, a sfondare (ormai trent’anni fa) la barriera culturale storicamente posta a protezione della letteratura contro le invasioni barbariche dei non addetti ai lavori. E alla fine tra tutti, essendosi via via infoltita con gli anni la schiera dei canta-scrittori, il più prolifico è stato proprio Guccini che aveva dato il la pubblicando il suo primo romanzo Cròniche Epafàniche nel lontano 1989: un viaggio alla riscoperta della rurale lingua arcaica e delle proprie radici affondate in quel tratto di Appennino tosco-emiliano che aveva come ancestrale capitale sentimentale la sua Pàvana. Era il primo capitolo di una sorta di trilogia autobiografica, benché non dichiarata come tale, proseguita con Vacca d’un cane del 1993 (di difficile lettura per l’incidenza di insistite forme dialettali, Guccini racconta qui l’altra parte della sua infanzia vissuta a Modena alla fine della Seconda guerra mondiale) e con Cittanova blues di dieci anni dopo, in cui da Modena si passa a Bologna e alla scoperta del mondo col suo “sogno americano” e della vita da musicista. Poi il successo, a quattro mani con Loriano Macchiavelli, dei romanzi sulle vicende tinte di giallo del maresciallo Santovito.

Ancora più ampia la bibliografia del professor Vecchioni, ma nel complesso di minor presa presso il grande pubblico. Da Il libraio di Selinunte a Il mercante di luce, da Viaggi del tempo immobile all’ultimo, il più intimo e autobiografico, La vita che si ama, appena uscito: «La felicità non è un angolo acuto della vita o un logaritmo incalcolabile o la quadratura del cerchio: la felicità è la geometria stessa» sintetizza Vecchioni in questo viaggio narrativo attraverso i venti e le tempeste di una vita, la sua e la nostra.

Cambiando decenni e generazioni, assai meno ostici e intellettualistici sono stati gli approdi e i percorsi letterari di altre due popstar nostrane: Ligabue e Jovanotti. Entrambi sono seguiti dal grande pubblico e, soprattutto nel caso di Ligabue, anche da buona parte della critica solitamente sospettosa, se non proprio ostile, nei confronti di questi emigranti della parola. Già apprezzato per la raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo del ’97, Ligabue sfonda (con duecentomila copie vendute) con il suo primo romanzo La neve se ne frega (2004). Un po’ meno riuscita invece la sua ultima prova letteraria, il libro di racconti Scusate il disordine uscito lo scorso maggio. E se per Il grande boh! (1998) di Jovanotti, frutto delle sue peripezie e attraversate ciclistiche in Africa e Patagonia, si è scomodata persino Fernanda Pivano definendo l’autore de L’ombelico del mondo «un grande scrittore di viaggio, con qualche reminiscenza di Jack Kerouac», altalenanti sono state le incursioni letterarie di altri protagonisti colti della canzone italiana, come Vinicio Capossela (la sua ultima fatica, non solo sua, è il ponderoso Il paese dei coppoloni) o il più snello Enrico Ruggeri, con ben quattro romanzi all’attivo negli ultimi sei anni. Anche per il cantautore milanese è arrivato quest’anno il momento di arruolarsi nella folta schiera di creatori di ispettori, marescialli e commissari con il recente Un prezzo da pagare e le indagini del vicequestore aggiunto Antonino Lombardo. Un giallo ambientato nel mondo della televisione e nella Milano di Ruggeri.Il capoluogo lombardo fa da sfondo anche ai freschi debutti come romanzieri di due dei più affermati e apprezzati cantautori del momento. E se per il 42enne milanese Niccolò Agliardi il libro Ti devo un ritorno (uscito a inizio ottobre per Salani) sembra anche l’occasione per cavalcare mediaticamente la messa in onda del terzo ciclo della serie di Raiuno Braccialetti rossi di cui è principale autore della colonna sonora (anch’essa appena pubblicata in cd), nel caso di Pacifico (alias Gino De Crescenzo) il debutto in veste di romanziere con Ti ho dato un bacio mentre dormivi (edito da Baldini&Castoldi) appare piuttosto la naturale estensione di una vocazione poetica e letteraria già ampiamente espressa nella sua carriera compositiva e cantautorale. Agliardi, prendendo spunto da un fatto di cronaca (lo spiaggiamento su un’isola di un’enorme quantità di panetti di cocaina dopo il naufragio dell’imbarcazione che li trasportava), racconta a tratti anche con piglio originale e ispirato la fuga di un trentenne da Milano e dalle incomprensioni familiari, dopo la morte del padre, verso le lontane Azzorre armato di un surf e di un inconscio bisogno di approdare a sé.

Vola alto Pacifico nel suo immaginifico primo romanzo. Con una scrittura evocativa e raffinata, si cala nel personaggio di tale Agostino Sella che (scambiato per suo padre) subisce una violenta aggressione che gli costa la perdita della memoria. Dovrà ritrovare la sua vita e la sua persona rievocando luoghi, situazioni, amicizie, amori (a partire da quello materno) attraverso cui la sacralità della famiglia, pur tra conflitti e lancinanti incomprensioni, emerge in tutta la sua archetipica forza. È in fondo la ricerca di sé, attraverso la scoperta del padre. Della sua immagine e somiglianza, di generazione in rigenerazione.

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