Lo chiamavano “bazooka”. Tanta era la potenza che imprimeva alle sue schiacciate
Luca Cantagalli, icona della pallavolo italiana che martedì compie cinquant’anni. La sua bacheca rimbomba di successi:
sette scudetti e quattro Coppe dei Campioni con le squadre di club e
330 presenze in Nazionale con argento olimpico (1996),
due ori mondiali e tre europei. Protagonista assoluto di quella «generazione di fenomeni » che prima con Velasco, poi con Bebeto e Anastasi per tutti gli anni Novanta portò l’Italia del volley a dettar legge nel mondo.
Talento esplosivo di 199 cm, Cantagalli da Cavriago (Reggio Emilia) ha esordito in serie A a diciott’anni.
Una passione intramontabile per questo sport che ha finito per contagiare anche i suoi figli,
Diego (sedici anni) e
Marco (tredici). Due piccoli “bazooka” nel segno del papà che nel 2009 è diventato allenatore e dal 2012 guida la Conad Reggio Emilia in Serie A2.
Ventisei anni di carriera ai massimi livelli e ora in panchina: la pallavolo ce l’ha nel sangue.«Avevo quindici anni quando ho lasciato il mio paese per andare a Modena. Ho sempre amato questo mondo che mi ha dato molto. Fino a qualche anno fa mi mancava tanto non poter più scendere in campo. Poi ho trovato energie e nuovi stimoli da allenatore. Ho cercato di prendere il meglio da tutti i tecnici che ho avuto, mi ispiro però a Velasco che è il più grande di tutti».
Sono passati quasi dieci anni da quella che curiosamente è considerata la sua ultima partita da giocatore. «Sì, era il 5 novembre 2006 a Montichiari. Facevo già il commentatore televisivo. Mi avevano chiesto di fare la telecronaca dell’All Star Game. Quando sono arrivato però mi han detto: mettiti calzoncini e maglietta sotto il vestito. Così nel bel mezzo della partita, tolte cuffie, giacca e cravatta, sono sceso in campo per l’ultima battuta. È stato emozionante. C’erano cinquemila persone. Non dimenticherò quell’applauso sincero e toccante».
Come nacque il soprannome di “bazooka”? «Fu lo speaker di Modena a darmelo perché schiacciavo molto forte. Ma come carattere sono una persona estremamente tranquilla. A volte mi piace isolarmi dal mondo leggere una montagna di libri d’avventura o andare a pesca».
La vittoria più bella di una carriera strepitosa? «Sono tante, ma il primo oro mondiale con la Nazionale di Velasco nel 1990 in Brasile rimarrà sempre nel mio cuore: una vittoria esaltante che ha dato il via ai successivi trionfi. Ma ricordo anche giorni tristi, perché fanno parte dello sport e della crescita di un giocatore: se non sai che cos’è la sconfitta non puoi apprezzare realmente la vittoria».
Per esempio? «Il primo scudetto perso con Modena nel 1985, non ho mai visto tanti tifosi piangere. Ma soprattutto la sconfitta in finale alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 contro l’Olanda. Pensavamo davvero di conquistare quell’oro olimpico che manca alla nostra Nazionale. La presi malissimo e tenni la medaglia chiusa in un cassetto per quattro anni».
Immagino sia stata dura digerire anche quella incredibile squalifica di quattro mesi per doping. «Fu una terribile leggerezza della società. Prendevo da oltre dieci anni un farmaco contro l’asma. Quella volta però non mandarono la lettera di accompagnamento. Caddi dalle nuvole: mi ritrovai di colpo sui giornali, io che in vita mia non ho nemmeno mai fumato una sigaretta! Però in quella vicenda ho avuto un’immensa prova d’affetto. Nessuno ebbe mai alcun sospetto su di me. E anche i media chiarirono subito che si trattò di un equivoco. Mi furono vicini tutti, amici e colleghi, e soprattutto Simona, mia moglie, alla quale devo tutti i miei successi. Stiamo insieme da trent’anni, è sempre stata al mio fianco sopportandomi e supportandomi. E mi ha sempre aspettato. In tredici anni di Nazionale a casa non c’ero quasi mai: ho visto più Giani e Lucchetta che lei. Abbiamo condiviso momenti difficili e altri magnifici, come il giorno più bello della mia vita: quando sono diventato papà».
Ma il doping, quello vero, esiste nella pallavolo? «No, non credo. È uno sport tecnico, dove il doping ha poca efficacia: non c’è niente che ti permetta di ricevere o battere meglio. Ma anche come cultura il pallavolista è molto lontano da questa pratica».
Il volley italiano può tornare ai fasti di un tempo? «Bisogna ricominciare a lavorare nei settori giovanili dopo tanti anni bui. A livello maschile si fa fatica a trovare giocatori fisicamente adatti per la pallavolo: basket e rugby ci portano via tanti ragazzi alti. Però siamo sulla buona strada: la Nazionale è di buon livello e può giocarsela con tutti. Abbiamo ottimi giocatori come Juantorena e Kovár».
Nell’immaginario collettivo però i fenomeni siete ancora voi.«È difficile eguagliare quel decennio di vittorie e quel gruppo. Non c’erano primedonne, eravamo tutti leader in campo e fuori ci legava una grande amicizia. Credo che oggi manchi quella grande forza mentale inculcataci da Velasco, improntata al lavoro e alla disciplina».
Di quel gruppo ha fatto parte anche Vigor Bovolenta, sfortunato campione scomparso a trentasette anni per un malore in campo. «Un grande amico, nonostante ci separassero dieci anni di età. Lo ricordo sempre con grande affetto, sempre allegro, un uomo straordinario».
Suo figlio a sedici anni (202 cm) ha già esordito con la Nazionale under 19. È un nuovo “bazooka”? «No, piano. Non voglio mettergli pressione, ha già un cognome scomodo. È vero, mi sono emozionato molto per il suo esordio con la maglia azzurra. Sono orgoglioso di lui e di suo fratello Marco, anche lui promettente. Ma meglio non caricarli di aspettative. Io dico loro solo di impegnarsi sempre al massimo e di essere positivi con i compagni. Purtroppo li vedo poco, giocano entrambi nelle Marche con la Lube Civitanova. Il piccolo in continuazione riguarda in tv le mie vecchie partite e mi chiede tanti consigli, è più espansivo. Diego invece è schivo, assomiglia più a me».
Che cosa si aspetta da loro?«Più che vittorie, mi auguro che facciano tesoro dei buoni principi della pallavolo e che si circondino di amici che rimangano con loro per tutta la vita. Perché quando smettiamo di essere campioni rimaniamo solo uomini. E un uomo senza amici e senza famiglia non è niente».