Una scena di "Sicilian Ghost Story", film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Sono stati i bambini i grandi protagonisti della giornata di ieri al Festival di Cannes, che ha proposto interessanti spunti di riflessione sull’infanzia negata, calpestata, offesa, ma anche capace di proteggersi e salvarsi grazie all’immaginazione, al sogno e alla fantasia. Un vero e proprio pugno nello stomaco è arrivato con Loveless del russo Andrey Zvjaginsev che già tre anni fa aveva lasciato un segno profondo con il magnifico Leviathan, denuncia del degrado morale e spirituale del paese. Di nuovo in concorso per la Palma d’Oro, il regista prosegue la sua lucida e spietata analisi di una società disumana, incapace di provare amore, pietà, compassione e pronta a sacrificare i più deboli, come il piccolo Aleksey, totalmente ignorato dai genitori in procinto di divorziare. Dalla sua stanza il bambino che piange disperatamente solo (in un paio di scene davvero terrificanti) è testimone di urla, cattiverie di ogni tipo, colpi bassi inferti reciprocamente dai due sciagurati che non l’hanno mai voluto. Il padre ha una compagna dalla quale sta per avere un altro figlio, la madre è assorbita da un nuovo, vantaggioso amore al punto da accorgersi solo dopo molte ore che il bambino è scomparso. La polizia russa non ha fretta di cominciare le ricerche, ma Aleksey non si trova e la caccia al bambino ha dunque inizio. Ambientato in una Mosca tetra, grigia e nebbiosa, il film fotografa senza sconti la corruzione del moderno tessuto sociale e della famiglia in Russia mostrando come la mancanza di amore sia un cancro capace di distruggere la vita di tutti i personaggi. Dietro l’apparenza di un thriller, Loveless è dunque la cronaca di una catastrofe spirituale dalle conseguenze imprevedibili. Il film si sofferma a osservare il crollo di un nucleo, quello familiare, dove l’amore dovrebbe essere di casa, ma è invece cancellato dalla brama di agio, status, libertà individuale (soprattutto dalle proprie responsabilità), sesso e soldi. E quello che inizia come il racconto di una crisi coniugale diventa l’angosciante affresco del fallimento di una società dove neppure la tenerezza di una madre per il figlio trova terreno fertile.
I più piccoli sono vittime innocenti anche inSicilian Ghost Story di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia che hanno aperto ieri la “Semaine de la Critique”. I due registi siciliani partono da un agghiacciante fatto di cronaca – il rapimento e l’uccisione del figlio di un pentito, Giuseppe Di Matteo, il cui corpo verrà dissolto nell’acido – per raccontarlo in forma di favola nera dove l’amore ha però un ruolo importante. Nel film Luna è innamorata di Giuseppe, ma il ragazzino scompare e lei non si dà pace nonostante l’invito a far finta di niente. Continua a cercarlo anche in sogno, fino a scoprire che Giuseppe è prigioniero della mafia.
«In Italia esiste una grande tradizione di cinema di denuncia e inchiesta – dicono i registi – che però sembra aver esaurito la propria funzione, diventando un universo chiuso che non ci ispira più. Per questo l’uso della favola in una storia di mafia ci sembra un atto politico, il tentativo di suscitare rabbia e indignazione nel pubblico utilizzando un linguaggio diverso ». Ma se la scelta di raccontare la cronaca attraverso il genere – fantasy, horror, love story – in una Sicilia inedita, quella montuosa dei Nebrodi, è senza dubbio coraggiosa e interessante, manca nel film la capacità di governare la materia, di metterla al servizio della storia così che l’uso ridondante di visioni e sogni finisce per sottrarre rigore alla messa in scena. Una bella boccata di ossigeno arriva invece da Wonderstruckdi Todd Haynes, film che sulla scia del cinema spielberghiano per famiglie, ci regala a partire da La stanza delle meraviglie, bellissima graphic novel di Brian Selznick (l’autore anche di Hugo Cabret) una storia di grande fascino e originalità. Nel film il piccolo Ben, che ha appena perduto la madre, ossessionato da un incubo ricorrente e vittima di un incidente che l’ha reso sordo, fugge dalla casa della zia in Minnesota per andare a New York, in cerca del padre che non ha mai conosciuto. Contemporaneamente assistiamo al viaggio della giovanissima Rose, sorda anche lei, che nella Grande Mela ci arriva per cercare la madre che l’ha abbandonata e suo fratello maggiore. Due storie parallele ambientate in periodi storici diversi – la prima negli anni Settanta, la seconda negli anni Venti, girata in bianco e nero, come fosse un film muto di Vidor o Murnau – destinate a incrociarsi in maniera inaspettata e rocambolesca. Prodotto da Amazon, il film interpretato tra gli altri da Julianne Moore, Michelle Williams e la piccola Millicent Simmonds, che in conferenza stampa parla con il linguaggio dei segni, è un omaggio al cinema delle origini capace di restituire anche tutta la complessità del mondo infantile e la densità di quello silenzioso. «Il passato continua a ispirarmi – dice Haynes – e trovo sempre delle buone ragioni per guardare a quel cinema. Ma il film è un tributo anche a tutto quello che si può fare con le mani, dalla ricostruzione in scala di New York nel museo del Queens al linguaggio dei segni, che anche Julianne Moore ha imparato per interpretare questo ruolo».
E sul ruolo del cinema anche nell’aiuto ad accostarsi a Dio, il 25 si terrà un dibattito con il regista tedesco Wim Wenders e il prefetto della Segreteria della Santa Sede monsignor Dario Edoardo Viganò secondo cui, riferendosi anche agli angeli de Il cielo sopra Berlino, «la settima arte ha cercato Dio nelle pieghe del visibile».