«Si parla tanto di rifondare il nostro calcio partendo dai vivai, ma se anche quelli sono pieni di stranieri...». È l’ultima stilla di saggezza recapitata dal “turco bresciano” Cesare Prandelli. Infatti la Serie A, nonostante le regole restrittive, specie in materia di extracomunitari - per ogni due acquistati due devono essere ceduti - per il 54% è composta da tesserati stranieri. Parecchi arrivano non ancora maggiorenni e da svincolati con le stimmate del potenziale campione per poi rivelarsi scadenti, se non addirittura “bidoni”.
In Europa, ci confermiamo fanalino di coda per quanto attiene ai giovani formati all’interno dei club e poi lanciati in prima squadra. Appena l’8%, contro il 39% della Svezia che vanta un primato che, per ora, non ha dato risultati sul piano internazionale (Ibrahimovic e compagni non hanno neppure preso parte al Mondiale brasiliano). In quella speciale graduatoria, si scopre che le prime cinque fabbriche europee dell’autarchia calcistica hanno sede in Slovacchia, Finlandia, Croazia e Danimarca, mentre le regine del calcio continentale, Spagna, Germania, Inghilterra, occupano posizioni tra il 16° e il 26° posto.
Numeri che non possono consolarci, perché le società italiane perseverano con lo spot “porte aperte agli stranieri”, anche se di basso livello. Per questo motivo, 109 nella passata stagione hanno chiuso con una media di appena 8 gare disputate. Una sessantina circa, poi, gli stranieri che non sono stati praticamente utilizzati. Ben cinque formazioni composte interamente da “inutili stranieri” che se non tolgono spazio agli italiani (specie i più giovani) vanno, comunque, ad ingrossare le rose già in surplus. Nonostante la crisi finanziaria dilagante, i presidenti rapiti dalle sirene corruttrici degli spregiudicati procuratori, continuano a mettere sotto contratto presunti fenomeni che vanno a comporre delle tribù del calcio che contano fino a 50 dipendenti tacchettati.
Una quantità difficile poi da piazzare sul mercato e soprattutto un continuo affronto al prodotto calcistico interno, mortificato da questo stranierificio che tocca punte massime preoccupanti. Nell’Internazionale, di nome e di fatto, il 92,2% degli schierati da Mazzarri compongono la legione straniera.
«Il modello tedesco è quello a cui guardare, ma forse non applicabile da noi», ha detto il candidato alla presidenza della Figc Demetrio Albertini. Nella Bundesliga, infatti, i calciatori in età compresa tra i 18-25 anni sono in maggioranza tedeschi (ed è uno dei motivi della Germania campione del mondo), mentre da noi gli italiani rappresentano un’esigua minoranza. Eppure patron estremamente esterofili, in nome della «globalizzazione» invocano addirittura l’introduzione del terzo extracomunitario per arrivare a un accesso illimitato di questi.
L’unica soluzione per tutelare il talento nato e cresciuto nel vivaio italiano e, quindi, anche la loro convocabilità in Nazionale, a questo punto sarebbe inserire nelle formazioni “quote tricolori mimime garantite” (40-50%, questo è tutto da discutere). Nel frattempo al mercato i “colpi” portano solo nomi stranieri. Le tre sorelle del Nord: Juve, Inter e Milan sfoggiano rispettivamente Morata, Menez (francese di ritorno) e M’Vila (o Vidic, fate voi).
Siamo distanti anni luce dalla galassia dei “top-player”, a meno che non si voglia considerare tale l’argentino Iturbe acquistato dalla Roma - dal Verona - per 22 milioni di euro. Al momento è l’affare dell’anno. Anzi no, quello potrebbe farlo il Terracina (serie D) riportando in Italia l’Imperatore Adriano. Lo stranierificio non conosce categorie e tanto meno limiti e confini.