Intuitivo, riproducibile e di attribuzione a vista immediata: c’è, nel nuovo logo della Juventus, la doppia J stilizzata che ha già fatto il giro del mondo, il marchio del futuro. Una rivoluzione simbolica, un taglio netto con blasoni araldici, rimandi agli emblemi cittadini, iconografie varie ed eventuali storicizzate, negli anni, negli stemmi del calcio. Un segno dalla semiotica basilare che da luglio manderà ufficialmente in pensione il vecchio logo ovale, le sue sette strisce e lo scudo municipale con il toro rampante e la corona. Resta una J che, ovunque nel mondo e più di quanto non accada ora, nelle menti degli ideatori dovrà significare, in maniera piuttosto univoca, Juventus. È il futuro, e all’inizio la nuova identità fa discutere, provoca un certo straniamento. Poi, inevitabilmente, anche i tifosi juventini si abitueranno.
È il marketing che guarda avanti e non si fa troppi scrupoli ad attuare rimozioni impreviste. Lo conferma il Real Madrid che, per il merchandising in vendita nei mercati arabi, ha deciso di togliere la croce dal vertice della corona reale che sormonta il monogramma del club. Una versione alternativa del logo dettata da esigenze commerciali e così, se per caso un giorno doveste acquistare una maglia del Real a Dubai, non trovereste quei due millimetri destinati, altrove, alla croce cristiana. E stiamo parlando del Real, il club più celebre del mondo. Anche senza farsi prendere dal facile passatismo, per reazione crea empatia chi, ancora, prosegue in direzione ostinata e contraria. Al Barcellona che, ad esempio, dal 1910 porta sempre il medesimo scudo con la croce di San Giorgio, i colori catalani e quelli del club, un pallone e tre lettere, Fcb. O, magari, al Benfica, altra squadra (come Juve, Real e Barça) approdata agli ottavi di Champions, che addirittura mantiene nel suo stemma un motto latino “ e pluribus unum”, a certificare l’unità in un solo club dei suoi numerosi soci. Già, il latino; nel calcio ancora non è morto e - a partire proprio dal nome Juventus - ma si mostra anche dove uno non se lo aspetterebbe, per la gioia dei calciofili più umanisti. Sino all’estate 2016, ad esempio, ai piedi dello stemma del Manchester City compariva la dicitura “ superbia in proelio” e l’Everton - dopo averlo eliminato tre anni fa - ha da poco ripristinato nel logo il motto “ nil satis nisi optimum”: mentre i Blackburn Rovers non hanno mai rinunciato ad “ arte et labore”, mutuato dall’emblema municipale e che, agli appassionati italiani, fa ricordare la Spal, notoriamente acronimo di società Polisportiva Ars et Labor. E se Arsenal e Tottenham Hotspur hanno abbandonato il latino nel logo in anni recenti (“ victoria concordia crescit” in quello dei Gunners, “ audere est facere” in quello degli Spurs), in Belgio l’Anderlecht presenta ancora la frase “ mens sana in corpore samutuati no” al centro di uno stemma carico di significati storici.
Perché sì, mantenere elementi estranei al calcio alimenta la curiosità e dà la possibilità di conoscere qualcosa in più. A chi appartiene il profilo stilizzato che campeggia nello stemma dell’Ajax? Che senso hanno i cuori in quello dell’Heerenveen? Se quegli stemmi fossero monogrammi, ad esempio, sarebbe un peccato non riconoscere in quel volto l’immagine leggendaria di Aiace Telamonio, e si perderebbe completamente l’identità regionale dell’Heerenveen, poiché i cuori sono da quelli presenti sulla bandiera della Frisia. E così, all’estremo opposto rispetto alla semplificazione juventina, c’è il caso del Porto, prossimo avversario dei bianconeri in Champions League, il cui logo è un complesso insieme di simbologie e araldiche che resistono dal 1922: sullo sfondo di un pallone azzurro di antica foggia su cui si stagliano le lettere Fcp, si trovano uno scudo quadripartito con lo stemma nazionale portoghese nel primo e nel quarto quadrante - cinque scudi blu disposti a croce all’interno di un bordo rosso con sette castelli color oro - mentre nel secondo e nel terzo compare la Vergine Maria, con Gesù fra le braccia, affiancata da due torri che sorreggono la scritta latina “Civitas Virginis”. Non solo: al centro dei quadranti si trova il cuore di Dom Pedro IV, re del Portogallo e primo imperatore del Brasile, reliquia custodita e venerata nella chiesa di Lapa. Lo scudo, poi, è circondato dal collare di un ordine cavalleresco (l’Ordem militar de Torre e Espada do valor, lealdade e mérito), sormontato da una corona sulla quale campeggia un drago verde - a sua volta simbolo allegorico del club, soprannominato Dragão - che sputa fuoco e sorregge uno striscione rosso su cui è vergata la parola “invicta”, ovvero città invitta, definizione che alla città fu attribuita dalla regina Maria II di Braganza. Ce n’è abbastanza per perdersi, se non si ha familiarità con la storia in generale e con quella del Portogallo in particolare. È, insomma, l’antitesi perfetta rispetto alla scelta di estrema essenzialità e riproducibilità operata dalla Juventus. Ma evoca mille anni di storia.