In una notte sorianesca, davanti al mare calmo di Portopalo centro del siracusano «più a sud di Tunisi» - , seduti a un tavolo (con gli “amici” del Gordo, l’Osvaldo d’Argentina) a parlare con uno degli ultimi difensori del “calcio di poesia”, Darwin Pastorin, abbiamo tutti avvertito la stessa sensazione di «speranza». «Sì perché il calcio – malgrado tutto – non è solo un gioco. È un sentimento forte, anche ora che è diventato business». Così scrive Pastorin, nel suo Lettera a un giovane calciatore (Chiarelettere, pagine 132, euro 13,00). Un’opera che pare quasi la “preghiera laica” di un innamorato del calcio. C’è dentro tutto il vissuto e la poetica del Pastorin bracconiere di storie italobrasilero: il Darvwin figlio di emigrati veneti in Brasile, a San Paolo, poi rientrati, a Torino.
Libro che fa seguito a Lettera a mio figlio sul calcio (Mondadori). «Ma un’altra lettera a mio figlio, che adesso ha 19 anni e tifa Cagliari, mi sembrava eccessivo. Allora ho spostato il tiro su un ipotetico giovane calciatore. E l’idea nasce da due istantanee: l’allegria del campo e le lacrime di un bambino. L’allegria del ritorno ai campi di periferia, tipo quelli in cui il treno passa proprio dietro alla porta. Il pianto invece era quello di un bimbo rimasto solo sugli spalti vuoti di uno stadio, un piccolo tifoso della Chapecoense, la squadra brasiliana caduta nella sciagura aerea del 28 novembre 2016». È alegria do povo, «allegria del popolo», quella che regalava il suo idolo brasiliano Garrincha - al quale Pastorin ha dedicato Ode a Mané( Limina) - e la saudade la «tristezza sudamericana» dinanzi al dolore per la perdita dei propri idoli. “Campo e Fantasia”, sono i due primi capitoli di una Lettera così etica e pedagogica che avrebbe apprezzato anche don Lorenzo Milani. Però il ritorno al potere della fantasia nel calcio sa tanto di visione utopica. «L’utopia serve per continuare a camminare, diceva il grande scrittore uruguagio Eduardo Galeano».
Il cantore di Miserie e splendori del gioco del calcio al quale Darwin si è ispirato fin dal suo debutto nel giornalismo sportivo che avvenne con l’imprimatur del “maestro”, Giovanni Arpino. «Il grande Arp mi raccomandò al “Guerin Sportivo” allora diretto da Italo Cucci scrivendogli: “È un giovane giornalista talmente bravo che qui a Torino sicuramente nessuno lo assumerà” ». Assunto immediatamente e sguinzagliato dallo stesso Cucci per andare a intervistare il ct azzurro Enzo Bearzot, già in silenzio stampa alla vigilia del Mundial ’82, il quale contatta- to al telefono dal giovane Pastorin rispose: «D’accordo, per Darwin e Freud io ci sono sempre». Sostenibile leggerezza del fútbol, è quella che spiega al suo giovane calciatore, senza mettersi in cattedra, senza giudicare. «Mi piacerebbe che questo libro lo leggessero tutti i coetanei di Gigio Donnarumma. Il diploma saltato? Domandiamoci però dove iniziano e terminano le responsabilità di questi ragazzi, spesso accecati dalle luci della ribalta. Anche Donnarumma prima o poi capirà che il pallone si sgonfia e allora poi resta solo ciò che hai letto, visto e imparato ». La prima lezione da apprendere e mandare a memoria, è il senso della “Sconfitta”. «In quel capitolo scrivo al giovane calciatore che se il calcio è metafora della vita allora la sconfitta non va vissuta come un fallimento. E la cultura della sconfitta a cui dobbiamo allenare i nostri ragazzi comincia dall’accettazione dei propri limiti».
In un mondo in cui, le rose delle squadre sono passate da 13 titolari a 30 lavoratori privilegiati dei campi professionistici non è una sconfitta neppure finire in panchina e fare la “Riserva”. «Le riserve di un tempo erano molto più frustrate e immalinconite, sempre lì, sedute in panchina in attesa di una remota chance. Penso al mio idolo, Massimo Piloni. Eterno 12° dietro a Dino Zoff, giocava titolare soltanto nelle mie squadre di subbuteo. Piloni non ha avuto la fortuna che meritava, ma è un personaggio più letterario di tanti illustri titolari e assieme a Gino Ferioli, che è stato il terzo portiere della mia Juve, hanno un posto particolare nel mio cuore». Quella Juve che una domenica triste e solitaria dell’ottobre del ’67, il giorno del derby appena dopo la morte del cuore Toro Gigi Meroni, Darwin seguì dalla curva con la bandiera bianconera listata a lutto. «Con Meroni era volata via un pezzo della nostra gioventù spensierata. Quel giorno la sua maglia n.7 la indossava Alberto Carelli che segnò anche un gol e il Toro vinse (4-0, tripletta di Combin). Carelli l’ho rincontrato dopo tanti anni e tra il nostalgico e l’amaro mi ha detto: “Tutti si ricordano della mia rete in quel derby lì, ma io ne ho segnato anche un altro di gol alla Juve ma è come se l’avessero cancellato”».
Indelebile invece è la ferita ancora aperta, come quella dell’America latina, per l’assurdo assassinio del difensore della Colombia Andrés Escobar. Un martire dell’Autogol. «Una vittima dei narcofùtbol Escobar. L’hanno assassinato, rinfacciandogli prima di sparare, quell’autogol con il quale gli Stati Uniti sconfissero la nazionale colombiana ai Mondiali di Usa ’94. Hanno ucciso un innocente, un calciatore speciale che avevo conosciuto personalmente: Andrés scriveva per il giornale “El Tiempo” e mi confidò di amare Álvaro Mutis e Abdul Bashur, due scrittori anche a me molto cari». Condannato a morte per un errore in campo. Assurdo. Dannati dal rimorso per un Rigore sbagliato. È nella logica di questo sport. «Non dimenticherò mai lo sguardo smarrito di Roberto Baggio che sbaglia dal dischetto nella finale americana persa ai rigori contro il Brasile. Mi sentivo un’anima divisa in due, da una parte le mie radici italiane e la passione per Baggio, dall’altra il Brasile in cui ero cresciuto e una Seleçao aggrappata al carisma di Romario».
Ancora due istantanee: le lacrime del n. 10 azzurro - Pastorin le ha custodite in Ti ricordi Baggio quel rigore?( Donzelli) - e la gioia del popolo brasiliano per la vittoria mondiale. «Però ogni volta che penso a Roby Baggio lo rivedo giovane, a Coverciano, che sorride felice assieme al suo grande amico e compagno della Fiorentina, Stefano Borgonovo...». Piccoli e grandi eroi esemplari che hanno ispirato poeti del gol. «“Mané” Garrincha è stato cantato dai grandi poeti brasiliani Vinicius de Moraes, Carlos Drummond de Andrade e Araipe Coutinho». Fuggitivi, sognatori e ribelli, come il “dottor” Socrates, calciatore laureato (in medicina) e leader maximo, in campo e fuori, della rivoluzione Corinthiana. «Un monumento del calcio brasiliano come Socrates mi spiazzò quando chiese: “Darwin un favore, mandami l’edizione italiana delle Lettere dal carceredi Antonio Gramsci». Spiazzante, come assistere a un derby in cui al posto del gagliardetto i due capitani si scambiano un libro. «È una proposta che rilancio – dice Pastorin – . Vorrei vedere un Juve-Toro con Gigi Buffon che entra in campo con in mano Azzurro tenebra di Arpino e lo scambia con Belotti che a sua volta gli dona La farfalla granatadi Nando Dalla Chiesa... Al giovane calciatore chiedo di restare sempre un innamorato del gioco e gli auguro un futuro con meno marketing e più dribbling. E contro i “genitori Tifosi”, presidenti date retta a Giovanni Lodetti: tra i campi di calcio mettete un cinema. I papà e le mamme andranno lì, mentre i loro ragazzi si divertono, correndo liberi e spensierati dietro a un pallone».
Il mondo del pallone raccontato da Darwin Pastorin ai Donnarumma di oggi e di domani
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