Les Herbiers, club di terza divisione francese, giocherà in finale di Coppa di Francia contro il Psg
Golia batterà Davide, l’8 maggio allo Stade de France: difficile, pressoché impossibile, che la poesia del calcio dei piccoli non si sciolga nella prosa della legge dei più forti, ed è improbabile allora immaginare un epilogo diverso per la finale di Coppa di Francia che martedì prossimo vedrà il Paris Saint Germain - già campione in Ligue 1 - affrontare il Les Herbiers, club semiprofessionistico che, dal basso del Championat National, la terza divisione francese, è riuscito ad arrivare sino all’ultimo atto del trofeo tricolore. Da un lato del campo il Psg degli sceicchi, società dalla potenza economica quasi illimitata, alla ricerca di una sequenza record se riuscisse a vincere la sua quarta Coppa di Francia consecutiva, dall’altro un club il cui budget a malapena tocca i due milioni di euro e che vivrà la finale esattamente a metà della settimana decisiva per evitare la retrocessione fra i dilettanti. Ma tanto vale provarci, per il club della Vandea: non c’è nulla da perdere, sebbene le possibilità di riuscita siano minime. Intanto la società sa di poter iscrivere a bilancio almeno 380 mila euro in più - è la cifra che la federazione riconosce al club sconfitto - e ha innalzato a livelli mai visti l’orgoglio di una comunità di 15 mila abitanti che è finita su tutti i giornali grazie alla sua squadra di calcio.
Si è ritrovata sulla prima pagina dell’Équipe, ha accolto in paese gli inviati di Le Parisien intenti a spiegare - anche a Javier Pastore, che ha candidamente ammesso di non sapere nulla dei prossimi avversari - chi e cosa ci sia dietro al Les Herbiers. Ovvero una società solida ma con poche pretese, un allenatore, Stephane Masala, di origini italiane (sarde da parte di padre e marchigiane da parte di madre) in carica da dicembre, un cammino in coppa in cui, pur senza aver mai affrontato club di Ligue 1, ha eliminato fra le altre Auxerre e Lens, sino a disputare la semifinale contro un’altra oscura squadra di terza divisione, lo Chambly, battuta 4-3 allo stadio di Nantes, La Beaujoire, davanti a 34.653 spettatori paganti. Viene spontaneo il paragone con il Calais che, nel 2000, raggiunse la finale di coppa - perdendola proprio contro il Nantes, ma alzando ugualmente il trofeo per mano del suo capitano, Regiland Becque - ed entrò nella leggenda calcistica. A dire la verità, quell’avventura fu ancora più speciale, considerando che la squadra giocava in quarta serie ed era in tutto e per tutto un club dilettantistico, eppure riuscì a battere pure Strasburgo e Bordeaux, squadre di Ligue 1. Calais, già. Nel 2000 i titoli erano tutti per la squadra di calcio.
Certo, il porto era già allora la base per i migranti che tentavano di salire sui tir in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra, ma la baraccopoli che è diventata famosa come “giungla” era ancora di là da venire, nonostante centinaia di donne e uomini senza documenti, disperati, sfollati dalle guerre nei Balcani e in Medio Oriente, affollassero allora un capannone dismesso utilizzato ai tempi della costruzione del tunnel della Manica. Era il campo di Sangatte, un centro di accoglienza dalle condizioni assai precarie e osteggiato tanto dal governo britannico tanto da quello francese, interessati piuttosto a bonificare Calais, notoriamente base per il passaggio illegale della frontiera, da quegli invisibili diventati sempre più vistosi. Calais oggi è un sinonimo di disumanità, nulla a che vedere con il lustro internazionale che quella squadra, diciotto anni fa e forse per prima, diede ad una cittadina portuale senza velleità, in una regione, il Nord-Pas-de-Calais (oggi Hauts-de-France), tradizionalmente oggetto di ironie - dal cinema alla letteratura - nel resto del paese. Non è un caso se ciò che (non) riuscì ad ottenere il Calais in Italia si fece epica, sino a rivivere nel 2011 a teatro in uno spettacolo intitolato “Alé Calais” - scritto da Osvaldo Guarrieri per la regia di Emanuela Giordano, voce narrante Marianella Bargilli - dedicato proprio a quella cavalcata. Perché rappresentava una storia esemplare, la forza di un sogno, certo interrotto e tuttavia indimenticabile, dove vinse anche chi aveva perduto.
Del resto certi exploit francesi sembrano fare più scalpore all’estero che in patria. Non è un paradosso, ma una realtà che in 25 anni ha visto ben cinque squadre di terza o quarta divisione raggiungere la finale della Coppa di Francia, per certi versi la competizione più democratica d’Europa: la missione impossibile del Les Herbiers è infatti la medesima che in questo lasso di tempo hanno tentato non solo il Calais, ma anche altre tre squadre del Championnat National, vale a dire il Nîmes nel 1996, l’Amiens nel 2001 e il Quevilly nel 2012. In comune il medesimo destino, perdere contro squadre di Ligue 1 ad un passo dal traguardo: il Nîmes fu sconfitto 2-1 dall’Auxerre, l’Amiens cedette ai rigori allo Strasburgo e il Quevilly vide alzare il trofeo l’Olympique Lione, al quale bastò l’1-0 per metterlo in bacheca. Così, al cospetto dei tanti cavalieri che non fecero l’impresa nella Coupe de France o, meglio, non la completarono, viene da sorridere pensando all’Italia e ad una coppa nazionale la cui formula appare una tassa da pagare all’oligarchia della Serie A, dove al massimo c’è un Pordenone che rischia di sbattere l’Inter fuori agli ottavi o, se proprio va bene, dopo tempo immemore una squadra di terza divisione, l’Alessandria nel 2016, arriva sino alle semifinali, rarissimo bug di un sistema che il possibile fenomeno del giant killing - che nella FA Cup inglese crea letteratura, sebbene sia sempre meno frequente nelle fasi decisive della competizione - preferisce sconfiggerlo a tavolino nel momento di fare le regole. Il giorno dopo la finale di Coppa di Francia a Roma si giocherà quella di Coppa Italia: in campo Juventus e Milan, in un torneo che negli ultimi quindici anni ha visto andare in finale appena nove squadre, tutte di A, sempre le stesse. Come da copione. E infatti qui storie in stile Calais e Les Herbiers le si vedono tutt’al più a teatro.