Lo scrittore Giosuè Calaciura - Ansa
«Una prosa densa e visionaria, arsa nei paesaggi mediterranei che sottolineano il travaglio di questa crescita, raccontata tra il tono di un “vangelo apocrifo” in forma autobiografica e suggestioni fiabesche»: così Fulvio Panzeri descriveva il clima di Io sono Gesù, il romanzo del 2021 con il quale Giosuè Calaciura si proponeva di attraversare il più vasto silenzio del Nuovo Testamento. Dopo il ritorno da Gerusalemme, dove il dodicenne Gesù si è intrattenuto a disputare con i dottori nel Tempio, la Scrittura entra in una zona d’ombra, che sarà rischiarata solo dal battesimo nel Giordano per mano di Giovanni. Inizia in quel momento la cosiddetta “vita pubblica” di Gesù. Tutto quello che sta nel mezzo può essere ricostruito solo per via di immaginazione. E questo, in effetti, aveva fatto Calaciura nel suo libro, a proposito del quale Panzeri acutamente rimandava al magistero incantato di un altro importante autore siciliano, Giuseppe Bonaviri, morto a quasi 85 anni nel 2009 e troppo rapidamente dimenticato. È una suggestione che è bene tenere presente mentre scorrono le pagine di Una notte (Sellerio, pagine 212, euro 16,00), che di Io sono Gesù rappresenta nello stesso tempo l’antefatto e il compimento. Già il libro precedente si apriva con la rievocazione della nascita a Betlemme, in una «notte leggendaria» che ora viene ripercorsa attraverso una serie di racconti che si strutturano a loro volta in romanzo o, meglio, in presepe di piccole storie. A colpo d’occhio, i personaggi sono quelli che crediamo di conoscere: il pastore e il soldato, i magi e la donna sterile, l’immacolata e lo scemo del villaggio, il pescatore e il bue che, pazientissimo, va incontro a un destino nel quale si preannuncia la missione del Bambino miracoloso. A schierarsi nei pressi della grotta, però, non sono statuine più o meno stereotipate, ma uomini e donne che portano con sé l’eco di vicende imprevedibili, sempre sottilmente intrecciate l’una all’altra. Fin dalle prime battute, questo è un racconto corale, suscitato dal propagarsi inspiegabile della notizia di una nascita che cambierà il corso della storia. Nell’attesa che la promessa si compia, ciascuno è chiamato a misurarsi con la rivoluzione – più o meno inavvertita – alla quale la notte fatidica dà quietamente inizio. In effetti, “rivoluzione” è il termine che meglio riassume lo spirito con cui Calaciura (palermitano, classe 1960, da tempo attivo a Roma e molto amato, tra l’altro, dai lettori francesi) torna ad affrontare l’impresa avviata con Io sono Gesù, libro rispetto al quale Una notte può rivendicare una maggior libertà di stile e di invenzione. Si apprezza la felice leggerezza della fiaba, ma a sostenere il fragile tessuto dei prodigi è sempre un sentimento immediato e drammatico della realtà. La sotterranea insurrezione degli ultimi (nei quali Calaciura riconosce i veri destinatari dell’annuncio evangelico) è resa possibile da quanto accade in cielo. La rivoluzione terrestre, insomma, va di pari passo con la rivoluzione degli astri, che Calaciura ipotizza interrogata invano dai sapienti venuti dall’Oriente e ormai sperduti da qualche parte nel deserto di Palestina. Al posto loro fanno ingresso a Be-tlemme gli impostori travestiti da re. Tra di essi si nasconde anche il ladruncolo che, in maniera del tutto accidentale, si è reso responsabile del censimento per il quale Maria e Giuseppe sono stati convocati nella città di Davide. Si tratta di un esempio (forse il più indicativo) della sicurezza con cui Calaciura entra nelle pieghe della narrazione evangelica, popolandola di figure e di situazioni che, anziché apparire irriverenti, finiscono per amplificare la potenza dell’avvento messianico. Sono scene di un presepe iperrealistico e insieme meraviglioso, come la gerla che il giovane pescatore porta sulle spalle e il cui contenuto sembrerebbe non esaurirsi mai. Al fianco del ragazzo appare una prostituta dalla bellezza già segnata eppure abbacinante, avanguardia di una presenza femminile che in Una notte si fa ancora più evidente di quanto accadesse in Io sono Gesù. Emblematico, anche in virtù della sua latente eterotodossia, l’episodio delle madri che, in visita al Bambino, giocano a scambiarsi i neonati e così non riescono più a riconoscere l’uno dall’altro, come a celebrare l’inesauribile forza che sta in ogni nascita. In tutto libro il Bambino è continuamente invocato e solo di rado intravisto, secondo un dispositivo che rimanda – ancora una volta – alla consuetudine del presepe, nel quale la mangiatoia predisposta per Gesù rimane vuota fino alla mezzanotte della Vigilia. Nella riscrittura di Calaciura i riferimenti a questa e ad altre tradizioni domestiche sono numerosi e riconoscibili: lo scimunito è parente del famoso meravigliato, la donna che porta al collo una pietra proviene dalla leggenda di santo Stefano e via di questo passo. Ma ad aprire e chiudere il libro sono due apologhi del tutto originali, che hanno per protagonisti rispettivamente un bambino buono e un uomo cattivo. Separati nel tempo, ma accomunati dalla necessità di investigare il più insondabile dei misteri: il fatto, cioè, che ciascuno di noi possa essere per l’altro occasione di salvezza oppure di condanna, in un’alternanza tra vittima e carnefice che solo sul Golgota trova riposo e soluzione.