L’impresa impossibile, portare in teatro
Il Deserto dei Tartari, è affrontata e vinta. Il romanzo dell’attesa, del tempo che scorre immobile, della scena che (apparentemente) non cambia mai perché nulla col passare dei decenni accade, è diventato spettacolo a Verona grazie all’adattamento del regista Paolo Valerio, capace in un lungo atto unico di ricostruire il sortilegio e le atmosfere del capolavoro di Dino Buzzati. Fino ad oggi soltanto monologhi o letture di pagine avevano tentato di tradurre il romanzo in linguaggio teatrale, ma proprio la mancanza di una trama dinamica aveva reso ostica l’impresa. Ci è riuscito Valerio, profondo conoscitore dell’animo di Buzzati, che si è invece affidato a lui entrando continuamente in consonanza con l’autore. Come rappresentare, infatti, i misteriosi orizzonti del deserto del Nord, da cui un giorno forse arriveranno i Tartari? Come la grandiosa Fortezza Bastioni, dai cui spalti i militari per tutta la vita scrutano in attesa del nemico e della gloria? Soprattutto come rendere quell’alternarsi di speranze, angosce, illusioni, delusioni e poi di nuovo speranze, che montano nell’animo di Giovanni Drogo e degli altri? L’idea coraggiosa e geniale è stata lasciare che a scrivere la sceneggiatura e a disegnare gli sfondi fosse lo stesso Buzzati, che infatti fu anche grande pittore. «Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa – disse –. Che dipinga o che scriva io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare storie». Così per tutta la durata dello spettacolo il pubblico viene colto di sorpresa dai fondali che riproducono quadri e disegni dello scrittore (scelti con la consulenza di Maria Teresa Ferrari, massima esperta della sua arte), così perfetti per le varie situazioni: le alte e franose rocce irte di picchi e guglie, le distese desertiche, le ombre informi e per questo inquietanti, le immense incombenti lune, i sogni e gli incubi, ma anche i cieli stellati e la magia della notte quando è profumata di promesse. Non solo. Ben lontano dal narcisismo di registi che sacrificano a se stessi il senso vero dell’opera, Paolo Valerio ha aderito così profondamente allo stile di Buzzati da “dattiloscrivere” il testo sugli sfondi man mano che la voce narrante lo recita, una scelta altamente evocativa per chi conosce Buzzati, che infatti nei quadri fondeva immagine e parola, e li chiamava «storie dipinte». Il Sipario si apre su Giovanni Drogo, ancora giovane e speranzoso tenente che lascia la città, mandato in un lontano distaccamento militare in cima a un’impervia montagna, alla Fortezza Bastiani. La quale esercita su tutti coloro che vi prestano servizio una specie di sortilegio: ognuno pensa di fermarsi solo pochi mesi e chiede di ripartire al più presto, ma poi resta imprigionato dal fascino di Bastiani e dall’attesa del grande evento, quei Tartari che prima o poi arriveranno e con l’eroismo della battaglia riscatteranno la sua esistenza. Un’ossessione che “ammala” tutti. Anche Drogo rimane fatalmente incatenato, al punto che non chiederà più di tornare in città e, nell’unica licenza, dall’incontro con l’amata madre e la fidanzata percepisce quanto il distacco dal mondo reale, in fondo banale e disincantato, sia irrimediabilmente perduto (splendido qui il fondale tratto da
Poema a fumetti di Buzzati, così lezioso e vacuo, spaventosamente diverso dai bastioni rocciosi delle altre scene). Passano i decenni inesorabili, tra sobbalzi di speranze e disperate disillusioni. E quando non si attende più, i Tartari arrivano davvero, solo che Drogo, a quel punto molto malato, viene derubato della sua dose di gloria e crudelmente mandato a morire in città. Questo avviene nel penultimo capitolo del romanzo, incredibilmente fino ad oggi considerato l’ultimo sia nei monologhi teatrali, sia addirittura nel famoso film di Valerio Zurlini
Il deserto dei Tartari (1976): tutti terminano nella disperazione, con un Drogo tradito dai compagni, sconfitto dalla vita. Fondamentale, allora, è il recupero che Paolo Valerio fa invece del senso originale del romanzo, cui restituisce quell’ultimo capitolo irrinunciabile, senza il quale si sovverte ciò che Buzzati voleva dirci. Altro che Tartari, eccola «la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita», scrive Buzzati: la morte. Non oscura disperazione ma «estrema speranza»… Quando entra Lei nella sua stanza, «Drogo fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cadevano, aprendo il passo alla luce». Con «gioia inesprimibile» capisce tutto: l’attesa vera non erano i Tartari e i perdenti sono i suoi compagni che ora li stanno combattendo a Bastiani. Lui invece, che valica la grande soglia della vita, sulla sua poltrona accoglie la morte drizzando il busto, con dignità mi-litare, guardando dalla finestra la «sua porzione di stelle» e poi «sorride» (non a caso ultima parola del romanzo). Tagliato il finale,
Il deserto dei Tartari era fino a oggi il più frainteso dei romanzi, il più tradito. «Drogo siamo tutti», spiega Paolo Valerio. Così gli attori che magistralmente impersonano i vari personaggi, via via vestono tutti anche i panni del protagonista. Di grande impatto la morte di Drogo, una poltrona vuota che sale verso il cielo. Anche questo sarebbe piaciuto a Buzzati, che ne dipinse tante e spiegò il perché: «Soprattutto quando nessuno ci è seduto sopra, sono molto espressive», conservano sempre qualcosa di noi, «come se un uomo si fosse alzato e avesse lasciato la sua impronta». Prima di andare a morire, Buzzati disegnò anche la sua.