lunedì 24 novembre 2014
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Può essere propedeutico, ma non è obbligatorio, aver visto giocare Mazzola e Rivera per chiedersi se Milano si meriti un derby così. E soprattutto se debba rassegnarsi ad uno spettacolo calcistico dalle conseguenze incerte tra l’anestetizzante e il lassativo come quello offerto domenica sera a San Siro.

Non serve nemmeno per forza essere tifosi di Milan o Inter per diventare nostalgici, o anche solo per esprimere la propria preoccupata delusione: anche in un esercizio apparentemente futile come il pallone, la mediocrità altrui diventa la sconfitta di tutti. E quella di un sistema, che sull’asse milanese ha fondato la storia, le fortune, le vittorie e anche alcune tra le pagine più godibili e spettacolari di questo sport.

Nessuno ha vinto, e nessuno ha perso l’altra sera. Quando due pochezze si sfidano a duello, perde sempre e solo chi assiste. Ma non è tanto la mancanza di vittoria il problema milanese, quanto il declino dell’estetica, quel senso di bellezza sfiorita e violentata dello spettacolo calcistico che trova peraltro sponda perfetta nel tracollo strutturale e visivo di una città allagata dalle pioggie e fatta diventare in alcuni suoi quartieri un suk a cielo aperto dove l’illegalità tollerata è diventata la normalità cronica.

“Normale” oggi è diventato anche ascoltare improbabili giustificazioni alla crisi di Inter e Milan, tutte o quasi mirate sul fatto che non possano tornare competitive se non spendendo tanto e acquistando campioni veri. Circostanza che i bilanci dei due club, al momento escludono. Anche perché attualmente pagano quattro allenatori per fare (male, vedendo i risultati) il lavoro di due.

Rassegnarsi all’inferiorità dunque - non solo per le due milanesi, ma anche per tutto il pallone italiano nell’impietoso confronto internazionale - sembra diventato inevitabile. Eppure non può essere sempre e solo una questione di soldi, o addirittura di stadi di proprietà mancati come qualcuno afferma, lasciando passare l’idea ridicola che sia ovvio giocar male se il prato non è tuo.

Il festival degli alibi insomma aiuta ad allungare l’agonia e ad allontanare la cura. Quella che altrove molti club meno titolati e anche meno ricchi, hanno adottato: provare cioè a tornare bravi giocando a calcio e non con gli esoneri e con le parole. Magari rimediando con l’organizzazione e la personalità all’assenza di grandi talenti. Meno lamenti e più idee insomma, quelle che sarebbe lecito attendersi da chi tanto guadagna e poco restituisce.

Abituarsi a due squadre che hanno come stratosferico obbietivo il terzo posto in campionato e che attualmente viaggiano sotto il settimo, non può essere “normale” se le due squadre si chiamano Milan e Inter. Come non è accettabile un futuro fluttuante tra l’anonimato e lo sbadiglio in un campionato tutt’altro che irresistibile (Juve e Roma a parte, la Serie A di oggi è questa se Ferrero rischia di andare in Champions League), a seconda dei dettagli e della fortuna.

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