Il portato di una storia e di una identità cristiana lunga 1.700 anni. Un senso di appartenenza che conosce l’esilio e la diaspora. E su tutto, un genocidio. Dedicare un concerto all’Armenia non è come a una nazione qualsiasi. Lo sa perfettamente Mario Brunello, che il 4 settembre con le letture di Gabriella Caramore a Città di Castello terrà il recital
Voci del silenzio, tra gli eventi clou del Festival delle Nazioni che proprio all’Armenia quest’anno è dedicato. Un viaggio tra le voci che si sono alzate tra Caucaso e Anatolia, da quella antica dei santi Gregorio di Narek e Nerses di Lambron, a quella di Armin Wegner, testimone dello Metz Yeghern, il "Grande male"; fino a quella di Vasilij Grossman, che proprio lì vide fiorire la «bontà e una vita vissuta secondo verità». «Il mio e quello di Gabriella saranno due grandi racconti che rievocano un ambiente, un’atmosfera», spiega Brunello, che con il suo violoncello eseguirà oltre alle sue trascrizioni di canti popolari d’Armenia, brani di Max Reger e di due compositori armeni contemporanei, il
Capriccio di Tigran Mansurian e
Cello Brief, di Vache Sharafyan, in prima assoluta.
Per Mandelš’tam l’Armenia fu la scoperta di una «terra di pietre urlanti». Lei che Paese ha trovato?«Anche se la città di Erevan è segnata dal lungo periodo sovietico, ovunque ci si affacci si sprofonda nella storia. Appena fuori dalla città si incontrano in un paesaggio apparentemente desolato queste vedette della storia che sono i monasteri, collocati a picco su gole rigogliosissime. È come se nelle vene di un paesaggio desertico scorressero paradisi terrestri. Ma ho incontrato soprattutto un popolo di grande nobiltà e dignità. E ho provato un forte interesse verso la sua musica e i musicisti, portatori di un linguaggio originale, da scoprire e divulgare il più possibile».
Che ruolo ha la musica nella cultura armena?«Quella armena è una cultura che si esprime attraverso la musica soprattutto, ma non solo, popolare. È una tradizione arrivata fino a noi grazie all’opera di padre Komitas, un religioso, compositore e musicologo rimasto coinvolto nel genocidio, che registrò e trascrisse oltre tremila canti del folklore armeno. A questa enorme quantità di materiale hanno guardato compositori come Kacaturjan e Mansurian per costruire il loro linguaggio. È un un serbatorio infinito di bellezze».
Anche lei vi ha attinto, rielaborando dei canti armeni per violoncello solo. «Effettivamente la scoperta di questi canti ha preceduto quella del popolo armeno. Nel 2011 in occasione della prima mondiale all’Isola d’Elba del suo
Surgite Gloriae, un concerto per viola scritto per Yuri Bashmet, ho incontrato Sharafyan. È stato lui a farmi conoscere il canto
Havun havun, un inno per la Resurrezione che suono spesso. È stata come una miccia. Di lì mi sono spostato a Venezia, all’isola di San Lazzaro degli Armeni, dove mi hanno fatto conoscere la raccolta di Komitas. Ma è stata una cosa "di pelle", senza particolari intenti di carattere musicologico. Mi ha colpito la potenza di queste melodie».
Nel concerto eseguirà anche la “Suite n. 2” di Max Reger. Perché questa scelta?«Uno dei testi che saranno letti arriva dai diari di un medico tedesco arruolato dall’esercito ottomano, Armin Wegner, che si ritrovò a documentare il genocidio. Wegner decise di raccontare perché era convinto che nessuno in Europa sapesse cosa stava accadendo. Il brano di Reger vuole essere uno sguardo sull’esterno, su quell’Europa che non sapeva o non voleva sapere ma in cui qualcuno ha deciso di non chiudere gli occhi».
C’è una traccia dello Metz Yeghern nella musica armena di oggi?«Non sento l’ostentazione della tragedia. Sembra una cosa sofferta più a livello intimo. Anche in questo c’è una grande dignità anche che fa sì che questa disperazione, questa voglia di rivalsa, non si riversi direttamente nella musica».
Sharafyan può essere iscritto in quel gruppo di compositori che nati nell’Unione Sovietica affondano la propria musica in un’espressione del religioso. Ad esempio penso, sempre in area caucasica, al georgiano Kancheli. Per molti di essi la musica supera le ideologie musicali del Novecento e cerca una voce più intima.«Sì, potremmo dire che Pärt e Kancheli stanno geograficamente ai lati opposti di quel filo rosso che ha diviso il mondo anche per motivi religiosi. Ma che non è riuscito a sopprimere del tutto la vocazione religiosa. Questa a un certo punto è balzata fuori con forza. È interessante che per ritrovare la vena spirituale questo mondo vada ad attingere a una cultura antica. Pärt stesso è andato in cerca della musica del Trecento per rifondare il suo linguaggio. Sharafyan e Mansurian hanno nella propria musica riferimenti che risalgono a oltre un migliaio di anni fa».