venerdì 19 ottobre 2018
Un volume di Santiago Beruete pone il tema floreale come forma filosofica e metafora del bene comune. E un almanacco ottocentesco mostra come fra fiori e donne corra una stretta analogia
Narciso, particolare di una tavola dal libro "La botanica de' fiori dedicata al bel sesso" (1827)

Narciso, particolare di una tavola dal libro "La botanica de' fiori dedicata al bel sesso" (1827)

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Il Giardino dei Semplici che il grande botanico e naturalista Ulisse Aldrovandi curò a Bologna nella seconda parte del Cinquecento era anche un luogo filosofico. Per il pensiero medioevale i “semplici” erano i principi curativi estratti direttamente dalle realtà naturali: volete mettere il fascino di un nome così, rispetto al suo complementare: l’Officina dei Compositi, vale a dire il luogo dove i farmaci venivano creati manipolando sostanze diverse? Al giardino come luogo filosofico Santiago Beruete, antropologo e scrittore spagnolo, un paio d’anni fa ha dedicato un corposo saggio ora tradotto da Ponte alle Grazie: Giardinosofia. Una storia filosofica del giardino (pagine 478, euro 22) dove spiega che per afferrare l’analogia simbolica, estetica e antropologica di un giardino bisogna averne realizzato almeno uno in proprio. E lui l’ha fatto.

Non è nemmeno necessario evocare l’albero sotto il quale Platone teneva le sue lezioni ai propri allievi per concordare sul fatto che il giardino sia «una sofisticata creazione intellettuale » che esprime, scrive ancora Beruete, «una teoria estetica della bellezza e una visione etica della felicità». Imitando gli antichi, Lorenzo de Medici fece allestire nel Giardino di San Marco quella che fu la prima accademia d’arte in Europa. Lo scrittore ceco Karel Capek in L’anno del giardiniere scrive: «Noi giardinieri viviamo, in un certo senso, nel futuro». E in questa prospettiva, nota Beruete, il giardino si presenta anche come «spazio utopico», ovvero «permette di intuire, intravedere e apprezzare ciò che potrebbe essere ma ancora non è, nonché ciò che avrebbe potuto essere». La pittura è ricca di esempi (anche in senso non sempre idilliaco, come nel Giardino delle delizie di Bosch) e in effetti il mondo arboreo organizzato in forme più o meno evocative dall’uomo ci parla della nostalgia «di ciò che è stato e di ciò che mai potrà essere». Il mondo di oggi, preso da mille rivendicazioni sociali, ne ha fatto persino uno strumento di lotta politica, di «ribellione contro l’egemonia del neoliberismo e del neocapitalismo rampante».

Sarebbe interessante, fosse ancora vivo, ascoltare il parere di Wittgenstein che facendo il giardiniere aveva certo sintonizzato il tema con la filosofia e l’etica. Il giardino oggi diventa una specie di bandiera del bene comune: «I giardini comunitari – riassume Beruete – costituiscono una formula alternativa ed efficace di promozione dell’identità e del lavoro di gruppo, di prevenzione dell’emarginazione e dell’esclusione sociale e di riduzione della criminalità». Funzionasse davvero questa idea, sarebbe proprio il caso di ripensare le nostre città attorno al giardino, come un tempo ci furono le piazze comunali. E c’è chi passa all’ecoguerriglia Green gettando seedbombs, ovvero delle granate ecologiche composte di semi e fertilizzanti, per rigenerare le aree abbandonate e incolte ai margini delle nostre città. Ci hanno provato a New York, quando era sindaco Rudy Giuliani, per contrastare la sua politica di privatizzazione di aree importanti (che avrebbero ospitato chissà quanti nuovi grattacieli), e oggi sono invece diventate giardini comunitari.

Ben diversa, e con vezzo da seduttore, era l’idea dell’editore Sonzogno che nel 1827 decise di pubblicare in forma anonima un almanacco intitolato La Botanica de’ Fiori dedicata al bel sesso (di cui esce ora una edizione critica curata da Simona Verrazzo
da Olschki, pagine 100, euro 14), che in chiusura portava anche il calendario del 1828. Era rivolta alla clientela femminile, nota la studiosa. Evidentemente, e non solo per ragioni di svago quotidiano, la storia letteraria e di costume ha antiche corrispondenze fra “linguaggio dei fiori” e universo femminile. Basti ricordare il celebre Romanzo della Rosa, che ebbe due edizioni, quella di Guillaume de Lorris nel 1237 (un poema allegorico cortese che celebrava il mondo sotto la luce femminile) e quella di Jean de Meung, che s’impossessò della versione precedente ampliandola di molto e dando al poema una inclinazione vagamente misogina che non passò inosservata a Christine de Pizan, la quale a fine Trecento fece le pulci al poema trovando l’appoggio del grande teologo Gerson (non a caso Christine, da protofemminista, compose un poema, La città delle Dame, dove riscrisse l’etica della città dell’uomo sotto l’ottica delle virtù muliebri).

Come nota Simona Verrazzo, dietro l’anonimato si cela l’erudito romagnolo Giuseppe Compagnoni, molto stimato nei salotti milanesi, che indirizzandosi non al “gentil sesso” o “alle dame”, ma, con insolita espressione, al “bel sesso”, getta il ponte verso quel modello che anticipa il tempo dell’autodeterminazione della donna, ovvero la donna lettrice, tema che fra Otto e Novecento di una ampia iconografia pittorica. L’edizione critica rintraccia le fonti, anche iconografiche, di cui l’editore Sonzogno si avvalse (delle dieci tavole stampate a colori, sei provengono da Les Fleurs, idylles morales sivies des poésies diverses curato da Constant Dubos nel 1817). L’impressione che se ne ricava è duplice: Compagnoni, che si rivolge alle «belle e leggiadre Donne» definendole «il Fiore della specie umana», segue sia un dettato tecnico, con precise terminologie della botanica; sia una sibillina allusione continua (considerando la morfologia, le funzioni, i miti, i colori) alla donna come corpo vivente. Si potrebbe forse dire che compone attraverso la sua botanica un’anatomia analogica della realtà fisica e interiore femminile. Sotto il potere di eros.

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