Figli di un Dio minore, ma sempre figli. Con
Figlio di nessuno la 29ª Settimana della Critica presenterà in concorso, durante il Festival di Venezia, un’incredibile opera prima diretta dal serbo Vuk Ršumovic. Bosnia, fine anni ’80: durante un’azione di caccia alcuni uomini, dopo aver ucciso un lupo, trovano un ragazzo nei boschi. È giovane, in età preadolescenziale, impaurito e nascosto in un corpo che interagisce con l’esterno proprio come un lupo. Spedito in un orfanotrofio di Belgrado, le autorità competenti gli assegnano il nome di Haris. Sembra essere senza speranze: educatori e medici non hanno le competenze necessarie per inserirlo tra i suoi pari. Girato con delicatezza e profondità
Figlio di nessuno è un film capace di creare un’atmosfera sempre tesa, dove gli affetti corrono sul filo della paura e della fragilità. E all’indomani del conflitto sanguinario della Bosnia-Erzegovina, molteplici domande sorgono: Cosa rende un uomo umano? È umana e necessaria la guerra? Quali sono le regole che differenziano un uomo da un animale? Vuk Ršumovic, per la prima volta da regista al Festival di Venezia, racconta in esclusiva ad
Avvenire la genesi del film.
La storia di “Figlio di nessuno” è ispirata a eventi realmente vissuti.«Nel 2007 mia moglie, regista teatrale, aveva organizzato in un orfanotrofio di Belgrado un laboratorio teatrale per ragazzi, ex delinquenti. Tra le tante storie una aveva colpito particolarmente un educatore. Ed era quella da cui è tratto questo film. Anni prima, verso la fine degli anni Ottanta, era arrivato un ragazzo "selvaggio" trovato nelle montagne della Bosnia. Gli esami e i test scientifici non davano nessuna chance di superamento della sua condizione "selvatica". Solo nel tempo il ragazzo, attraverso l’amicizia con un giovane orfano, aveva imparato a parlare, a camminare, utilizzando le scarpe, e a interagire con le persone. Aveva iniziato perciò a comportarsi come un uomo. Nel 1992, allo scoppio del conflitto in Bosnia-Erzegovina il ragazzo, cittadino bosniaco, è ritornato nel suo Paese di provenienza. E lì, durante una sparatoria, ha perso la vita».
Il suo film ricorda “Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut. Quali sono i suoi riferimenti cinematografici? «Tanti, come
Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani, ma senza dubbio sono stato ispirato molto dal
Il ragazzo selvaggio di Truffaut e dai suoi numerosi appunti. Uno dei quali mi ha ispirato nella realizzazione della storia. "Puoi spendere tutta la tua vita cercando l’autenticità e la completezza del tuo racconto. Ma se il mio è un film di finzione posso solo immaginare quello che non conosco". Ho speso tanti mesi in ricerche e in studi di psicologia. Alla fine ho deciso di costruire la storia dando spazio alla mia immaginazione nella costruzione del protagonista. E se Truffaut racconta
Il ragazzo selvaggio attraverso la prospettiva dei medici,
Figlio di nessuno è la storia di Haris vissuta attraverso i suoi occhi. Quando Haris si apre agli altri, ogni cosa è nuova per lui. Impara a sorridere, a vivere le emozioni fino a scegliere».
L’amicizia compie miracoli, là dove la scienza non conosce risposte?«L’amicizia è una giusta chiave per la civilizzazione. Sia nella storia realmente accaduta in Bosnia sia nel mio film la gratuità dell’amicizia ha permesso che il ragazzo "selvaggio" diventasse un uomo a tutti gli effetti. Non sapeva e non voleva mangiare in un piatto, non sapeva parlare se non mordere e ringhiare come un lupo».
Dalla foresta selvaggia alla trincea. Come hai raccontato la guerra?«Guardare la guerra attraverso gli occhi di un ragazzino aiuta a comprendere l’assurdità del sangue versato. La guerra è un elemento affascinante perché un bambino puro come Haris non ha mai visto un combattimento né impugnato un fucile. Haris non riconosce la differenza tra i vari soldati. Per lui i guerrieri sono tutti uguali, vestiti nella stessa maniera e non capisce il perché delle trincee. Un perché senza risposte per un bambino, che ha appena conosciuto e vissuto il confine tra un uomo e un animale».
Prima volta da regista alla Mostra d’arte cinematografica nella sezione competitiva della Settimana della critica...«Sono felice. Sono stato in Italia tante volte, in particolare a Venezia. Ho visitato la città numerose volte, per assistere alle esposizioni d’arte della Biennale; come giornalista ho partecipato al Festival di Venezia nel 1995. Oggi ritornare come regista è davvero una grande emozione».